Il recente articolo di Paolo Maltagliati sull’insegnamento della storia, intesa quale classe di concorso, va contestualizzato in un quadro molto più ampio, che esula dalla mera questione della singola didattica disciplinare, per meglio comprendere quello che sta accadendo ora a livello sistemico. La recente riforma del percorso di formazione inIziale degli aspiranti docenti pare riecheggiare un film di Marco Ferreri, La grande abbuffata.
Dopo anni di totale assenza di un percorso strutturato e stabile, il Governo italiano è dovuto ricorrere ai ripari, su costrizione del PNRR, con italico ingegno: sono previsti percorsi diversificati in base all’utente finale, che si trova in situazione diverse dopo un decennio di mutamenti normativi. Sulla tavola imbandita l’aspirante docente o il precario storico può scegliere il percorso formativo a lui più congeniale, caratterizzato da un numero di crediti diverso: 30 CFU per docenti abilitati su altro grado e/o classe di concorso, oppure specializzati in sostegno e per chi ha maturato 3 anni di servizio; percorsi formativi da 36 CFU per chi ha già conseguito i 24 previsti precedentemente dalla normativa vigente; e infine da 60 CFU, per i completi neofiti.
È bene precisare che i 60 CFU non sono un percorso autonomo e strutturato, specifico per la preparazione dei futuri docenti, e infatti manca un nome preciso rappresentato da un acronimo, come succedeva nel passato: Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario (SSIS) e Tirocinio formativo attivo (TFA). Infatti, si potranno conseguire i crediti mancanti per raggiungere i 60 CFU pur continuando a frequentare contemporaneamente il proprio corso di laurea.
Per quali strane motivazioni “dietrologiche” c’è questa discrepanza? È presto detto. Da tempo si parla di fare una radicale riforma del cosiddetto 3+2 per razionalizzare il sistema: attualmente ci sono la laurea triennale e la laurea magistrale, ma la seconda è in pratica un doppione della prima, mentre dovrebbe qualificarsi con un più marcato orientamento verso la professionalizzazione, cioè sostanzialmente verso la preparazione dei docenti, almeno per le materie di area umanistica. Il che sarebbe un tremendo terremoto per tutto il mondo accademico, il quale è in gran parte refrattario alla dimensione della ricerca pedagogica e didattica, rispetto alla ricerca pura rappresentata dall’afferenza disciplinare dei docenti universitari, ossia dalla collocazione scientifica che ciascun docente assume nel sistema universitario, suddiviso in raggruppamenti disciplinari.
Se infatti si va a guardare l’articolo 15 della legge 240 del 2010, l’organizzazione di tali raggruppamenti si articola in tre livelli, dal livello generale a quello più particolare, rappresentati rispettivamente da: Macro settori concorsuali (MSC, sono 86); Settori concorsuali (SC, 190); Settori scientifico-disciplinari (SSD, 383). Nella classificazione maniacale della burocrazia italiana, a loro volta i MSC fanno riferimento alle 14 aree CUN. Insomma, la riforma 3+2 aveva senso per diversificare le due lauree, mentre ha prodotto, in concreto, l’allungamento di un anno del percorso universitario rispetto alla laurea quadriennale del previgente ordinamento, con la conseguenza della moltiplicazione delle cattedre per collocare assistenti e ricercatori e il pagamento di un ulteriore anno di tasse in più, a rimpinguare le casse degli atenei.
In un’epoca complessa come la nostra, la formazione iniziale dei docenti è fondamentale, in quanto non è più possibile, o sostenibile, una concezione trasmissivo-nozionistica della conoscenze e si impongono nuovi paradigmi didattici. Quale può essere una risposta concreta per affrontare questa sfida? Puntare sulla formazione iniziale dei docenti e sull’aggiornamento in servizio. Ma in Italia pare impossibile, perché gli interessi peculiari di determinate categorie verrebbero meno. Per esempio, i sindacati della scuola perderebbero la loro funzione di supporto e di guida per le migliaia di persone che, ogni anno, si improvvisano docenti, senza un’adeguata preparazione: si pensi alla situazione scandalosa, anzi aberrante, per cui fa l’insegnante di sostegno con un alunno disabile chi viene chiamato da una graduatoria, mentre era disoccupato oppure faceva le buste paga fino al giorno prima!
Perché allora non si è creato un percorso strutturato con un’esatta denominazione e corrispondente acronimo, come nel passato? Per motivi opportunistici: il mondo accademico ha paura che, una volta creato questo percorso strutturato, avvenga ciò che teme da anni, la trasformazione della laurea magistrale in una laurea professionalizzante per l’insegnamento, alla quale sarebbe del tutto impreparato.
È sensato che per fare la maestra e il maestro ci vogliano 5 anni per conseguire una laurea in scienze della formazione primaria, e per insegnare alle medie ci voglia una laurea “nozionistica”, per esempio in lettere? Si è arrivati, in questo modo, per non scontentare nessuno, a un compromesso all’italiana: tutto rimane così com’è. Grazie alla flessibilità dei crediti, lo studente universitario consegue la laurea biennale (magistrale) nella maniera consueta fino al raggiungimento dei 180 crediti previsti dalla normativa vigente, potendo già “anticipare” qualche credito necessario per l’insegnamento nel corso dei due anni.
Quelli che avanzano, sempre necessari per l’insegnamento, potranno essere presi “dopo”, nell’ambito di un innominato percorso detto dei 60 CFU. L’importante è aver salvato i posti di lavoro del mondo universitario e aver versato la tassa per un anno, anzi lo studente dovrà pagare il corso di formazione, ovvero dei 60 CFU, altri 2mila euro circa, senza la certezza di avere un posto di lavoro nella scuola italiana.
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