Pochi giorni e si ricomincia. Libri e quaderni sono quasi pronti, anche quelli dei docenti che, di prima nomina o veterani, si troveranno allo stesso modo (l’ottuso appiattimento statale non prevede differenze fra chi ha meno di trent’anni e nessuna esperienza e chi ne ha più di sessanta, di cui una quarantina trascorsi dietro la cattedra) davanti alla consueta montagna di adempimenti burocratici che l’elefantiaco ministero dell’Istruzione (pare abbia più addetti del Department of Defense americano) s’è inventato negli anni per rendere la scuola più “democratica”.
Come sopravvivere ad un nuovo inizio di anno scolastico, per di più alle prese con la “novità” di educazione alla cittadinanza che il governo è riuscito a rendere obbligatoria in ogni ordine e grado sul filo di lana della propria sopravvivenza? Cercando di rispondere ad una domanda che pare scontata e, invece, non lo è affatto: ma io, in classe, cosa entro a fare?
Non lo è per una lunga serie di motivi che Ernesto Galli della Loggia ha esplicitato con dovizia di particolari nel suo recente L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, 2019), che già dal titolo inequivocabile denuncia una posizione a dir poco critica con i governi di ogni colore che si sono succeduti nell’ultimo mezzo secolo. Domanda meno scontata oggi, dal momento che “è nato negli insegnanti nel corso del tempo un sentimento più che comprensibile di frustrazione e, perlomeno potenzialmente, un deficit di autostima”.
Basta guardarsi attorno, entrare in un’aula, partecipare ad un collegio docenti, intavolare un discorso – fosse pure quello informale per ingannare il tempo col vicino di ombrellone – per rendersene conto: al posto degli alunni di una volta, dietro la lavagna sono finiti i loro “maestri”. Non per negligenza o scarsa preparazione, ma per assenza di ruolo: defraudato dei suoi compiti primari legati alla trasmissione delle conoscenze – superata da quella di fantomatiche “competenze” imposte dalle linee programmatiche di derivazione nordeuropea -, oggi l’insegnante non sa più chi è. Da tempo non possiede più un ruolo sociale riconosciuto, non può effettuare interrogazioni e/o verifiche a meno che siano state programmate con largo anticipo, non può bocciare se non documentando “oltre ogni ragionevole dubbio” la sua decisione e, in ogni caso, è inerme davanti ai conseguenti ricorsi al Tar, deve chinare il capo obtorto collo davanti alla documentazione medica prodotta a sostegno di un ampio e spesso immotivato spettro di deficit d’ogni sorta. E ci fermiamo qui.
Dunque: io insegnante, in classe, cosa entro a fare? Per insegnare cosa e come e a chi? Il noto storico ed editorialista del Corriere non si addentra esplicitamente in questo tipo di domande – ed è il limite del libro, per altro spietato nello sviscerare le cause storiche per cui l’autore finisce col bocciare la scuola italiana -, che però emergono con prepotenza pagina dopo pagina, in un crescendo di cahiers de doléances che partono da Rousseau e arrivano al ministro Bussetti, mettendo in risalto una conoscenza dell’ambiente scolastico, specie quello “di base”, insospettabile in un docente universitario.
Fra consigli di classe dove tutto o quasi è già determinato dal mantra dell’inclusività ad ogni costo, bocciature impossibili, normative calate improvvisamente dall’alto, elevazione della pedagogia a moloch, pagine e pagine di direttive ministeriali zeppe di roboanti obiettivi che ogni docente sa bene essere irraggiungibili, dirigenti proni a qualsiasi direttiva romana, Galli della Loggia conclude che “in questo modo la scuola è diventata un mastodontico guscio vuoto”. Dunque e ancora: io, in classe, cosa entro a fare?
Ciò che può salvare la scuola, vale a dire sia l’insegnante (che non sa più come lasciare il “segno”), sia l’alunno (col suo bisogno di senso, il desiderio di infinito, la necessità di crescere avendo in mano gli strumenti per affrontare la vita al meglio possibile) è soltanto il rapporto personale fra insegnante e studente. Un rapporto che non può scadere nel compromesso di una generica alleanza generazionale, una sorta di patto di amicizia che metta sul medesimo piano docente e discente, io non faccio male a te e tu non lo fai a me, in una reciproca rinuncia ai ruoli.
Al contrario, dimenticate le nefandezze sessantottine della triade autorità-nozionismo-valutazione, che la storia ha provveduto da tempo a dissolvere nel nulla, l’insegnante deve tornare a insegnare, cioè a lasciare un segno di valore, e l’allievo a imparare, cioè a permettere a quel segno – con la fatica, coi libri, con lo studio: non c’è tablet, lavagna luminosa, “classe rovesciata” che tenga – di entrare nella sua vita e con esso egli possa confrontarsi.
“Oggi la vera divisione passa da qui: tra chi crede che il fine dell’istruzione debba essere ancora questo e chi invece è convinto che il compito della scuola debba consistere nell’inseguire i tempi, nel dialogare con le famiglie, nella moltiplicazione delle attività integrative”. Obiettivo arduo da mettere in pratica, ma ci dobbiamo provare. Altrimenti, cosa entriamo in classe a fare?