Il tempo di queste vacanze natalizie è per molti insegnanti delle scuole superiori un tempo di attesa particolare. Nei pochi scambi di auguri con alcuni colleghi, al saluto “ci rivediamo a gennaio, in presenza” qualcuno rispondeva “forse”, con evidente allusione a tutti i “se” e i “ma” che tengono tacitamente in ostaggio la riapertura delle scuole superiori. Che creano movimenti di opinione opposti e contrari.



Ma volendo sospendere le analisi per un attimo, chiediamoci: “di che è attesa questa attesa?” Come ci lascia l’esperienza dell’anno eccezionale appena trascorso e cosa mette a fuoco nel nostro sguardo all’inizio del nuovo anno? Mi chiedo, in effetti, che cosa mi aspetto dal rientro a scuola. Quanto il “come”, in presenza o a distanza, esaurisce il “cosa”?



Attendiamo come chi si chiede se domani pioverà? Eppure, rispetto alla possibilità di un fatto (la pioggia), ci sono tanti modi di attendere. Perché se sono un pescatore che deve uscire in mare la domanda che riempie il mio sguardo posato sul cielo diventa più drammatica, cioè il mio bisogno deve fare i conti con qualcosa che non controllo io, e questo vale anche per il contadino che, invece, spera nella pioggia. E di drammi il 2020 ne ha aperti molti.

Mi vengono in mente i volti di alcuni studenti e studentesse, gli scambi di messaggi a seguito dei vari richiami a partecipare alle videolezioni, la stanchezza del sentire “non riesco a collegarmi”, la percezione che alcuni di loro si stiano perdendo nella sconfinata solitudine delle loro stanze, dietro la telecamera spenta “per non consumare giga”.



Ora, rispetto a questo, mettere a fuoco il mio bisogno di insegnante decide della mia attesa. Di cosa ho bisogno nel mio insegnare? Dell’esserci mio davanti ai miei studenti e alle mie studentesse. E dell’esserci loro. Questo ho scoperto nella distanza.

Esserci, il mio esserci, dove “-ci” è una particella che colloca tutta la mia partita nel qui e ora. Non è scontato e, forse, non è ultimamente determinato da “in presenza” o “a distanza”.

Però ho bisogno anche dell’esserci di qualcun altro, degli studenti che, a distanza, sono in realtà a casa e non a scuola: “non riusciamo a stare attenti”, “non abbiamo i compagni come in classe”, “mi ha chiamato mia madre”, ecc. È stato un esserci diverso, che ci ha fatto scoprire fragilità, fatiche familiari, che ha messo a fuoco alcune domande essenziali: “non voglio studiare ma il peggio è che non so perché”…

Questo è un fatto: come la pioggia cade dal cielo, la scuola è un fatto di relazioni, talvolta drammatiche, tra persone tutte intere. Abbiamo bisogno di questo. Se questi mesi sono stati interessanti, sono stati scuola, lo sono stati nella misura in cui la fatica della didattica a distanza, attraversata, ha fatto ri-scoprire, drammaticamente, a noi e ai nostri studenti, di cosa siamo bisogno. Per il resto, tutto quello che ha tenuto fuori questo dramma o lo ha misconosciuto con slogan vari, archiviando con uno scandalizzato e paternalistico “per ora è così, vedremo al ritorno in presenza”,  è stato un non esserci. Può accadere anche in presenza.