Da tempo ormai parliamo di ripartire dalle periferie, che non sono più l’esterno delle metropoli, ma quasi un nuovo centro, non solo delle città, bensì dei nostri cuori: confini e margini, muri e distanze, povertà e solitudine, periferie fisiche ed esistenziali, ci attraversano. Intorno a questo nuovo centro si coagula una “rete” virtuale e invisibile che ha sostituito rapporti e condivisioni reali, a favore di fugaci intrecci frammentati, oppure a favore dei non-luoghi (il centro commerciale, le grandi arterie urbane, i grandi parcheggi, le grandi costruzioni per lo spettacolo o lo sport), dove coesistiamo, sognando di essere altrove per infrangere il morso della solitudine.
Ma perché i nostri ragazzi si ritirano in queste periferie? La nostra adulta liquidità intellettuale ha forse dissolto il loro protagonismo: fuori dalla storia (“si figuri prof se io cambio la storia!”), fuori dal potere utile e costruttivo (“io non conto mica, prof, non sono ai piani alti!”), fuori dal territorio (pochi conoscono davvero la storia del luogo in cui vivono); invece, dentro le loro camere, dentro la rete, dentro una banda, dentro uno schermo, per nascondersi o evadere.
Non esistono più i bar Sport, il liceo, la discoteca, il caffè, la biblioteca, il portone o la piazza o il ponte, quelle marche di territorio che segnavano una appartenenza; eppure proprio questo vincolo è l’oggetto del desiderio, anche nelle periferie, anche nella violenza, come in Educazione siberiana, o ne I ragazzi della 56a strada, dove dentro il Male appare qualcosa di diverso che ci conquista, cioè l’esperienza di legami forti che dettano regole, ritmi, scelte, sguardi. Sono quei legami a cambiare il volto del luogo e sono quei volti a diventare luogo cui appartenere con tutte le domande del nostro cuore. Non dobbiamo avere paura di scendere coi nostri ragazzi nel buio delle loro periferie, perché soltanto lì possiamo scovarli e offrire una strada, innanzitutto un rapporto.
La letteratura ci viene in aiuto e ci dona le parole per vivere con loro nascondimento e riscatto, smarrimento e salvezza, facendo tutto il percorso insieme. Ci possiamo perdere dentro Il giardino segreto della Burnett; dentro i sogni, come racconta McEwan; fra le mura diroccate nella Via degli Uccelli di Orlev; in luoghi che aprono all’oltre, come Altrondo e Terabithia, di G. Montes e da K. Paterson; nel dolore della solitudine, come per Anna ne La Dichiarazione di G. Malley.
Rendendosi invisibili agli occhi degli altri, come in Non chiamatemi Ismaele di G. Bauer o Una barca nel bosco della Mastrocola; dietro sms o lettere, come in Ciao, tu, della Masini; dentro il rifiuto della verità, come in Sette minuti dopo la mezzanotte, di P. Ness; dentro il cibo, come in Cate, io di M.Cellini; dentro le strade come ne I ragazzi della Via Pal di Molnár, o in una baraccopoli come in Trash. Sono storie di crescita, dove nascondersi assume i contorni di luoghi, reali o immaginari, simbolici o concreti, comunque periferici rispetto al resto del mondo, dentro un guscio, un rifugio, una nicchia. Eppure, in questi luoghi emerge un valore, un bene nascosto, un possibile significato.
In tanta parte della narrativa contemporanea rivolta ai giovani, abbondano le descrizioni di periferie, luoghi disastrati, ambienti metropolitani, scenari iperrealistici che tentano di coinvolgere emotivamente. Invece, i ragazzi si gettano voraci nel mondo del fantasy, dell’urban fantasy, nei romanzi post-apocalittici e nelle saghe, proprio perché la descrizione della realtà nuda e cruda quasi mai li coinvolge davvero: non basta descrivere la realtà così com’è, se negli interstizi, in certe crepe nascoste, non brilla altro, qualcosa che inferno non è.
Infatti, nelle grandi storie c’è sempre un incontro con un punto di realtà che fa riemergere il protagonista dal buio e gli fa riprendere il cammino verso l’età adulta: servono apparizioni e incontri, lancinanti ed imprevedibili, che ci attendono dentro gli interstizi del reale (F. Pusterla), qualcosa di insperato, di insolito, che ci riscatti dal nulla. Soltanto in questo caso, siamo disponibili a uscire dalla nostra tana, dal buio, per qualcuno che diventa luogo di approdo, luogo in cui trovarsi o ri-trovarsi: come in Oh boy! della Murail, ne Il grande gioco di Almond, o La stanza del lupo di Clima, o in Un bene al mondo di Andrea Bajani; ne La città di carta di J. Green, Quentin osserva la città di Orlando e vede i luoghi in modo nuovo per la presenza di Margo, amore ritrovato dopo anni di lontananza; ne Il lottatore di sumo che non diventava grosso, soltanto un anziano maestro di sumo riesce a vedere in un ragazzino “lungo, magro, sottile” “un grosso che sonnecchia! Bisogna svegliarlo e nutrirlo affinché sbocci!”.
Servono eventi e volti che siano stella, guida, dentro le nostre periferie: Billy Elliot di Burgess, Pink Lady della Bonfiglioli, La linea del traguardo di Paola Zannoner, Qualcuno con cui correre di Grossman, le storie di Catozzella, di Ferrara o D’Adamo, sono ancora altre storie in cui questo accade. Sono storie che portano o riaccendono il fuoco, come ne La strada di McCarthy o in Otto montagne di Cognetti, dove i figli scoprono e attraversano i luoghi del vivere dentro lo sguardo dei padri.
Quindi, sì, la periferia può diventare luogo di riscatto, di vita nuova che deborda dalle miserie umane. E già Tondelli o Lodoli, ma soprattutto Pasolini, hanno da tempo mirabilmente narrato di luoghi simili, dove emergono possibilità conoscitive nuove e salvifiche. Cos’è quella leggerezza dei ragazzi “leggeri come stracci [che] giocano alla brezza ardenti di sventatezza” ne Le ceneri di Gramsci? Cos’è questa bellezza, che vive anche lì dove tutto cospira a tacere la gioia? Forse è un problema di occhio, di sguardo, come scrive un altro grande del nostro tempo, Colum McCann, in Questo bacio vada al mondo intero: “a volte in questa vita c’è più bellezza di quanta il mondo possa reggerne”. Dentro il frastuono, caotico e dissacrante, degli eventi newyorchesi si disegnano sempre nuovi corridoi di luce, anche dentro il peccato più amaro, come quello del monaco innamoratosi di una prostituta: “Cristo era abbastanza facile da comprendere. Andava dove Lo si attendeva. Si fermava dove era necessaria la Sua presenza. Portava con sé poco o niente, un paio di sandali, una camicia striminzita, qualche cianfrusaglia per ingannare la solitudine. E Lui non aveva mai rifiutato il mondo. Farlo avrebbe significato negare il mistero. E negare il mistero sarebbe equivalso a rifiutare la fede. Corrigan voleva un Dio pienamente credibile, un Dio riconoscibile nel sudiciume del quotidiano. Il conforto che traeva dalla cruda e fredda realtà – corruzione, guerra, povertà – era che la vita poteva elargire piccole meraviglie. I magnifici racconti di un’esistenza ultraterrena o l’idea di un paradiso intriso di miele non lo interessavano. (…) Invece, nella vita reale, lo consolava la possibilità di intravedere nell’oscurità una piccola luce, guasta e ammaccata, ma pur sempre una luce”.
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