Scrivere di scuola in maniera approfondita non è facile. Ciò vale per chi vi lavora, la cui condizione interna non consente di guardare la scuola dall’alto, a volo di uccello, e di intravederne oggettivamente la forma, ma soprattutto vale per gli esterni, che hanno difficoltà a raccapezzarsi a fronte di un mondo alieno. La materia, infatti, è complessa e la stragrande maggioranza dei giornalisti preferisce massaggiarne l’epidermide, con il tema degli alunni che bullizzano i professori o con quello evergreen del peso degli zaini. Per questo motivo il libro di Gianna Fregonara e Orsola Riva Non sparate sulla scuola (Solferino 2023), rappresenta una apprezzabile novità. Inoltre, ha un sottotitolo azzeccato che recita Tutto quello che non vi dicono sull’istruzione in Italia. Effettivamente, aldilà dei luoghi comuni, l’opinione pubblica conosce ben poco della scuola: gli adulti ne conservano l’immagine che hanno avuto in veste di alunni, oppure, quando occupano il ruolo di genitori, tendono a universalizzare le esperienze dei figli, generalizzando in maniera indebita. Invece, parlare di scuola in maniera competente significa calarsi dentro i fatti, le statistiche e le ricerche, adottando un metodo argomentato di elaborazione delle idee e un linguaggio semplice e preciso. Occorre infine lasciarsi trasportare dalla curiosità, senza la quale il mestiere di giornalista non avrebbe fondamento. In tal senso, Fregonara e Riva hanno mostrato la loro caratura professionale, offrendoci, con un intento divulgativo, un panorama del mondo scolastico abbastanza inusuale o semplicemente ignorato dall’opinione pubblica nazionale, inverando così il sottotitolo del loro saggio.
La scuola italiana è tutt’oggi un pachiderma che comprende nove milioni di persone, tra bambini e adulti che vi lavorano in varia veste. Si tratta di un mondo sui generis, dove i docenti usano un linguaggio di acronimi, come PTOF (Piano triennale dell’offerta formativa), PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e di orientamento), PON (Programma operativo nazionale), ecc. Un mondo che, al suo interno, pare tuttavia dotato di una certa omogeneità, tant’è che gli insegnanti si fiutano e si riconoscono subito, indipendentemente dalla latitudine in cui lavorano. Generalmente vivono anche una condizione diffusa di omogamia, perché tendono ad accoppiarsi tra colleghi. Una somiglianza tra pari che vivono anche gli adolescenti, favorita dai social che tendono a diffondere idee omologanti. In sostanza, per quanto si tratti di un pianeta di vaste dimensioni, che orbita attorno alla società civile con un’ellissi ben visibile, la scuola rappresenta una dimensione altra, che riguarda soprattutto chi la vive dall’interno ed è esternamente di scarso interesse.
Il libro di Fregonara e Riva risponde a un’architettura complessa, articolata in dieci capitoli. Per questo, con un arbitrario intento sinottico, seguirò due macroaree: quella degli alunni e dei genitori e quella degli insegnanti.
Cominciamo dalla prima e cioè dal racconto della protesta degli alunni del liceo milanese Berchet, con la loro lettera che cita una frase di Mario Untersteiner, insigne grecista di quella scuola: “La scuola deve essere amicizia, o non è”. Le autrici la riportano in epigrafe al capitolo quinto, compiendo un passo iniziale importante per affrontare la questione giovanile. Infatti di questione si tratta, cioè di qualcosa di mutevole nel tempo, perché come è noto l’adolescenza è un’invenzione storica (intorno ai secoli XVII e XVIII, secondo Philippe Ariès) e vi sono state epoche (il secolo XX), diversamente da quella attuale, in cui il mito della giovinezza aveva una funzione propulsiva per l’intera società (Gianni Borgna). Oggi, invece, i giovani appaiono fragili e incapaci di sostenere le dinamiche scolastiche, eccessivamente competitive. La dispersione è elevata – come si racconta nel nono capitolo – e rappresenta uno dei record negativi della scuola italiana. Tutto ciò è abbastanza incomprensibile per gli adulti (“I giovani hanno tutto!”), particolarmente quando si trovano di fronte agli enigmi stordenti e raggelanti dei disordini alimentari, dell’autolesionismo (i tagli nelle braccia o le pulsioni suicidali) e della sessualità vissuta online.
Matteo Lancini, opportunamente citato, ci offre una euristica narrativa interessante. Ci parla di giovani traditi, ipersorvegliati perché non siano esposti ai pericoli della vita e indotti a proteggersi nella ridotta delle abitazioni, per poi essere rimproverati per la dipendenza da Internet e perché non escono di camera. Di bambini dialoganti, esperti di relazionalità con effetti anestetici per il mondo adulto, che tuttavia vengono nutriti con ideali elevatissimi e poi scoprono drammaticamente, nella preadolescenza, di non poter essere coerenti con l’iperuranio che è stato loro proposto. Giovani alunni in crisi, la cui “fragilità”, concetto reiterato e usurato, rappresenta l’epitome.
Ma gli insegnanti, anche quelli più giovani, non hanno maggiori capacità penetrative nell’universo adolescenziale rispetto agli adulti esterni. Se la cavano un po’ meglio quelli più sensibili, ma questa qualità non serve ancora a comporre una professionalità. Infatti di questo dovremmo parlare, perché non basta conoscere una disciplina – osservano le autrici – per saperla insegnare. Tuttavia, nonostante vari tentativi di definire un percorso universitario e postuniversitario per diventare docenti, non si si è mai addivenuti a un accordo con i sindacati, previo il quale varare una legge. Così in Italia non c’è un percorso che avvii all’insegnamento. Forse bisognerebbe porsi la domanda se i sindacati vogliono davvero definire un tale percorso, che eluderebbe l’azione sindacale finalizzata a ottenere le sanatorie. Queste ultime sono state, ormai da tempo, il principale strumento di immissione in ruolo dei docenti. Ma sono state anche un formidabile mezzo di tesseramento, perché i sindacati sono il principale soggetto promotore delle sanatorie stesse.
Fregonara e Riva, poi, descrivono con precisione i guai della condizione docente (bassi stipendi e aumento della burocrazia) e del fenomeno delle cattedre vuote, per mancanza o indisponibilità di insegnanti, particolarmente di quelli di materie scientifiche e tecnologiche. La carenza di docenti è un fenomeno soprattutto settentrionale, per questo varrebbe la pena di porsi la domanda di Andrea Ichino se è accettabile che un maestro a Milano abbia uno stipendio ridotto di un terzo, in termini reali, rispetto ad un collega della stessa disciplina e con gli stessi anni di anzianità di servizio, che però vive a Ragusa? Perché ridotto? Per il costo della vita, che è diverso. Aggiungo: è accettabile che quei docenti, una minoranza, che “portano avanti la scuola” e lavorano molto più di tutti gli altri abbiano lo stesso stipendio di questi ultimi? Anche sulla carriera dei docenti vige il tabù sindacale.
Fregonara e Riva, poi, fanno una rassegna, nel settimo capitolo, delle innovazioni didattiche che vengono praticate nelle scuole. Esse sono molteplici, dalla flipped classroom al debate, dalla didattica per ambienti di apprendimento (Dada) a quelle che si avvalgono delle nuove tecnologie informatiche, ma in quante scuole esse vengono praticate? Queste nuove didattiche, sulle quali dovrebbe ruotare la professionalità dei docenti, non sono molto diffuse. Né si può immaginare un obbligo formativo per indurre i docenti a impossessarsi di quei metodi, dacché un tale dovere contrasta con l’articolato dei contratti nazionali di comparto. Tuttavia, la mancanza di esso (che invece appartiene a tutte le categorie professionali) rappresenta per la scuola un grave vulnus, dacché non si può immaginare una scuola che formi gli alunni senza che gli insegnanti formino e aggiornino sé stessi.
A mo’ di conclusione, potremmo osservare che sempre più spesso non è l’opinione pubblica a sparare sulla scuola, ma è quest’ultima, nel suo versante corporativo sindacale, “tafazzianamente” ad autospararsi.
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