Nel silenzio del mondo della scuola italiano dal 5 al 7 marzo si è tenuta ad Haifa (Israele) la terza conferenza tematica on line della European  Council of High Ability (Echa) su Teaching High Ability Students, ovvero sugli studenti Gifted (da gift, dono) termine che in Italia viene tradotto spesso con superdotazione.



Nel nostro paese nonostante il dibattito (?) sul merito, per ora non sembra muoversi molto. Anche il ministero Bianchi, probabilmente assediato da altre emergenze, non è sembrato avere mosso foglia. Vaghissimi accenni criptici in circolari, un Cts del 2018 triennale ormai de iure scaduto, un fiorire di iniziative di agenzie legate a cattedre e scuole di pensiero universitarie che si rivolgono a genitori e scuole avvedute con attività extrascolastiche più o meno scientificamente avvalorate. Negli ultimi tempi sono usciti ben cinque libri sul tema e sono spuntati articoli di prima informazione meritoriamente divulgativi anche su siti dedicati ai temi della scuola. Ma il mondo interno, non solo delle scuole, ma anche delle associazioni insegnanti e dirigenti scolastici che dovrebbero esprimere un livello di consapevolezza maggiore – a parte rare eccezioni come un Progetto europeo in partenza dell’Associazione docenti e dirigenti italiani (Adi) – non sembra gettarsi sulla tematica.



Si sono già fatte su queste pagine considerazioni sulla tematica Gifted e sulle diverse politiche scolastiche in proposito a livello internazionale. Potremmo sintetizzarle così: i paesi dell’East Asia ed alcuni di quelli in cerca di sviluppo – compresa l’Europa dell’Est – si impegnano senza molte remore alla ricerca di strumenti appunto di sviluppo, quali possono essere ad esempio gli studenti particolarmente dotati. Il mondo occidentale, e soprattutto i governi europei, sono paralizzati dai timori relativi alle accuse di mancanza di equità e cercano di fare qualcosa sotto la spinta soprattutto delle famiglie, ma in modo molto blando. Come in Italia ma molto di più, si muove soprattutto la società civile ed il mondo accademico.



Ma il convegno di Haifa non ha trattato tanto temi di politica scolastica, quanto è entrato nel merito di specifiche esperienze, anche per quanto riguarda la didattica.

Cosa se ne può dedurre? Una prima impressione è che le proposte non siano sostanzialmente diverse da quelle che da più di 20 anni sentiamo qui presentare dagli esperti di pedagogia e didattica.

Dal punto di vista delle metodologie prevalgono quelle che potremmo definire le metodologie attive: lavoro su progetti, interdisciplinarità, problem solving, analisi di caso, sviluppo della critica, dibattiti fra diversi punti di vista, collaborazione, pensiero creativo, flipped class. Naturalmente nessuno postula di metterle tutte assieme, ma la base è questa, volta a volta scegliendole per applicarle a diversi contenuti. In questo caso si vogliono utilizzare modelli più ricchi e problemi che richiedono maggiore creatività. E che vengono anche ulteriormente perfezionati e sofisticati.

Un esempio: partendo dalla base dell’ormai abbastanza diffuso anche in Italia debate, una esperienza in Israele definita moral dilemma based si struttura nel seguente modo: presentazione di un breve caso con dilemma morale, assegnazione casuale (molto importante) a 5 diversi gruppi che debbono rispettivamente: 1) presentare i fatti, 2) dichiarare come comportarsi secondo valori dichiarati, 3) sostenere la posizione opposta secondo opposti valori, 4) descrivere le emozioni generate dalla situazione, 5) individuare una soluzione in modo creativo. Tanta roba, come si dice adesso… L’impressione è che in questi casi finalmente queste metodologie possano funzionare.

Nonostante quanto spesso se ne dice, infatti, gli apprendimenti basati sulla trasmissione costituiscono un indispensabile punto di partenza per tutti, soprattutto per chi non è particolarmente dotato nei diversi campi del sapere, e sono il presupposto per progressi più significativi quali quelli richiesti da tale tipo di metodologie “attive”, oggettivamente più impegnative. Il problema sta nel fatto che vengono per lo più applicati sempre e con tutti, con questo screditandoli come esercizi mentali indispensabili. A quando una bella discussione su vantaggi e svantaggi dell’apprendimento a memoria? Si capisce, non come metodologia prevalente.

Quanto al non secondario problema se i cosiddetti Gifted debbano lavorare insieme agli altri o separati, la risposta non è semplice. In via preliminare è importante sottolineare che a tutt’oggi mancano evidenze,  anche perché la ricerca in proposito non è stata certo sostenuta ed incoraggiata. La necessità della eterogeneità è sostenuta con forza non solo per ragioni psicologiche di equità, ma anche sulla base della convinzione che fare diversamente abbasserebbe il livello complessivo del sistema.

Tuttavia non bisogna neanche dimenticare che, soprattutto ai livelli di età più bassi, il livello di frustrazione e di conseguente disagio dei Gifted è tale che la preoccupazione delle famiglie per la loro situazione è stato uno dei pochi motori che hanno spinto i governi occidentali a quel poco di interventi che hanno realizzato. Ed infatti una relazione ha sintetizzato quelli che sono i rischi e le occasioni perse dalle società se questi giovani non trovano modalità di realizzazione: frustrazione, noia, ribellione anche a fronte di pressioni sociali soprattutto dei coetanei.

Nel Convegno, ad avviso di chi scrive, uno dei momenti più significativi è stata l’intervista a cinque adolescenti, i cui occhi sprizzavano intelligenza, che hanno manifestato il loro entusiasmo di trovarsi infine – anche se a tempo determinato – fra simili, che condividevano i loro interessi ed il loro desiderio di approfondire. Nessun disdegno o senso di superiorità dichiarato, ma il sollievo di trovarsi infine in “più spirabil aure”. Non mancano neppure studi che parlano di situazioni conflittuali dovute al fatto che questi ragazzi si possono sentire sfruttati e magari sottovalutati in un lavoro fra pari il cui obiettivo sia l’inclusività e non il risultato. Tutto questo per dire che la questione ha molte facce e che non tutto si può risolvere con l’inclusivismo.

Dal punto di vista dei contenuti grande interesse ha riscosso la presentazione di una decana Usa che propone sostanzialmente un curricolo di social sciences approfondito e problematizzato. Non è cosa da poco vedere rientrare in gioco le buone vecchie humanities, perché la plusdotazione è stata ed e in larga parte identificata con la logica, la matematica e le scienze. La ragione non è solo che le misurazioni in questi campi sono fattibili più che in altri, ma anche che il grande sviluppo della nostra ricchezza e civiltà attuali ha quelle basi. E che pertanto le vocazioni in quel senso sono più ricercate ed apprezzate anche dal punto di vista utilitaristico. Nella relazione si è ripercorso l’itinerario di un intervento sul curricolo di social sciences particolarmente sviluppato negli anni 70 e soprattutto 80, mentre l’attenzione, a partire dagli anni 90, per la valorizzazione dei livelli bassi ne avrebbe (si intuisce) attutito l’impatto e l’espansione. Oggi però si ha l’impressione di una ripresa, anche attestata dalle reazioni in chat dei partecipanti. In sintesi, usando un po’ le nostre categorie, si tratta di un’analisi delle grandi strutture della storia e della letteratura usando modelli e sistemi basati sull’analisi del contesto, sulla presentazione di multipli punti di vista, sull’utilizzo però anche delle biografia, sull’uso dell’ottica politica, economica, culturale e sulla focalizzazione sui modelli e sui loro cambiamenti. Tanta roba anche qui, anche se per noi europei non del tutto nuova.

Le associazioni mondiali ed europee che si dedicano allo studio della plusdotazione realizzano periodicamente incontri internazionali, ora anche online, per garantire la circolazione delle idee ed anche la sopravvivenza di mondi che nei loro Paesi lamentano comunque, anche nelle migliori situazioni, un certo isolamento. Sarebbe utile anche in Italia cominciare a darci un’occhiata.

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