Vedendo le immagini degli studenti in piazza e riflettendo sulle loro rivendicazioni e dichiarazioni sono stato assalito da una grande tristezza. Così come tristezza – e un po’ di repulsione – mi ha provocato il coro di giudizi benevoli dei commentatori nei programmi televisivi e sui giornali. Cui va aggiunta la benevolenza con cui il ministro ha accolto in quel di Trastevere la delegazione degli studenti, autoproclamatisi rappresentanti di tutta la categoria.
Non ho potuto fare a meno di rapportare questi eventi a quanto personalmente vissuto un po’ di annetti fa. Ad una retorica pro ’68, se ne è contrapposta una che ha inteso demonizzarlo in toto e che non ho mai condiviso, perché in contrasto con la mia esperienza. Uno slogan, bellissimo, ripreso da Albert Camus, rende bene il respiro, l’input iniziale con cui allora quella generazione era partita: “Soyez réalistes, demandez l’impossible”. Bello, perché dice di una misura che è quella del desiderio, che unicamente si addice all’uomo: infinita.
Certo, fin dai primi tempi, in chi lo assumeva era presente anche un’ambiguità, quella della pretesa di cambiamento, di esercizio di un potere di trasformazione della realtà che poi diviene – com’è diventata – violenza e una violenza che si autoassolve. Ma la radice era buona.
All’inizio i due lati stavano assieme, come il buon seme e la zizzania che solo Dio e il tempo possono discriminare. Inizialmente, infatti, la richiesta di cambiamento era forte, non ideologica, fuori dagli schemi, capace di esprimersi in modo creativo. Il paradosso – ora me ne rendo conto – stava proprio nel fatto che tutto ciò pescava nel profondo di una cultura che ci veniva dai nostri padri, da quegli stessi padri che stavamo contestando, che uscivano dal trauma della guerra e avevano nel Dna l’energia, la forza, la positività di sguardo (e tutta la sofferenza) della ricostruzione. Quella cultura di popolo che Pasolini vedeva giustamente messa in pericolo dalla nuova, nichilistica non-cultura del benessere materialistico e dell’individualismo, più forte della stessa ideologia a cui pretendeva di contrapporsi. E che ha finito per svuotare dall’interno quel cuore “rivoluzionario” che aveva affidato il desiderio all’ideologia.
Io sono doppiamente riconoscente a mio padre: primo, per avermi generato fisicamente in quella cultura popolare e contadina che ho respirato e assimilato fin dai primi giorni; secondo, per non avermi benevolmente incoraggiato o peggio ancora difeso, ma – seppur con grande rispetto e libertà – richiamato ad un principio di realtà. Rendendo possibile così il mio contrappormi. E’ un rapporto strano, quello tra padre e figlio, che nell’apparente durezza dell’autorità esercitata contiene anche una discrezione e un rispetto (verrebbe da dire: pudore), forse più intensi che nel rapporto uomo-donna.
Ma chi hanno di fronte oggi i nostri ragazzi? Quale humus li sostiene? La domanda c’è, confusa, e il desiderio pure, ma com’è fragile! Indebolito non tanto dal Covid, ma da quella insicurezza e paura diffuse che hanno come prima radice la rinuncia alla vita fatta dagli adulti per il timore della morte fisica. Tra gli obiettivi di “lotta” degli studenti la richiesta di retromarcia sulla seconda prova dell’esame di Stato e l’abrogazione dell’alternanza scuola lavoro, identificata con una sorta di sfruttamento di manodopera minorile da parte dell’orco-mondo dell’impresa. Invece di pretendere l’ingresso nella realtà, da protagonisti, si chiede di esserne preservati, di rimanere custoditi in una bolla. La scuola come limbo. La scuola come preservativo.
Ma nelle manifestazioni romane di fronte al ministero è emersa anche un’altra richiesta, quella della stabilizzazione dei docenti-precari. Il lessico sindacale è inequivocabile.
Mi ricordo quando negli anni 70 si organizzavano le manifestazioni. Agli obiettivi più immediati, legati ai problemi che toccavano le persone sul vivo, se ne affiancava almeno uno di carattere politico più generale. Per creare una “coscienza politica” nelle masse, si diceva. Che tristezza vedere ancora questo squallido sfruttamento – questo sì – della coscienza minorile. Davvero possiamo pensare che i giovani abbiano quale obiettivo il mantenimento dell’ingranaggio che rende la scuola il più grande “postificio” del Paese? È questa la rivolta che va benevolmente applaudita?
Qualche giorno fa D’Avenia ha scritto bene sul Corriere della Sera, nel commentare il passaggio da un’occupazione a una cogestione, con tanto di richiesta di collaborazione da parte degli studenti ai docenti disponibili: c’è bisogno di adulti – e padri – veri, i ragazzi ne hanno bisogno e dentro questo rituale che continua a ricalcare le vecchie, stanche forme del passato si esprime, seppur confusamente, la domanda di un modo diverso di fare scuola, di “abitarla” come spazio di vita.
Si parla tanto di grande riforma anche per la scuola, in concomitanza al Pnrr. Nei fatti, però, la preoccupazione e l’investimento non sono andati oltre il rientro in presenza e la copertura delle cattedre. Così non solo gli studenti inscenano i soliti rituali, ma trovano in questo anche un inaspettato compagno di viaggio nel ministero, che ancor più che dell’Ostruzione pare configurarsi come un ministero dell’Occupazione. Degli insegnanti, ovviamente.
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