E poi, d’improvviso, accade quello che non ti saresti aspettato. Mentre la stampa nazionale ti rimpinza di immagini di ragazzi che fanno picchetto davanti alla propria scuola perché vogliono ritornare in classe, accade, nella tua città, che alla data fissata per il ritorno in presenza, un gruppo molto consistente di studenti scenda in sciopero perché ritiene che non sia il momento più opportuno per ricominciare le lezioni in presenza.



Leggo, in un documento firmato da tutti i rappresentanti d’istituto delle scuole superiori della mia provincia, che “la salute come l’istruzione è un diritto di tutti e in questa situazione di costante crescita dei contagi, in cui non si riuscirebbe a mantenere un corretto distanziamento sui mezzi e in classe, non pare opportuno contribuire seppur indirettamente ad accrescere la curva epidemica, rischiando di mettere in pericolo la salute di studenti, personale docente e amministrativo e famiglie…”. Il documento, a partire da queste premesse, chiede di continuare con la didattica a distanza finché non si verifichi un calo dei contagi.



È fin troppo facile porsi davanti a queste rivendicazioni con un sorriso ironico e insinuante, pensando che questi ragazzi si sono comodamente acclimatati alla Did (didattica integrata digitale), che gli consente di accedere alle lezioni standosene a casa, evitando verifiche e interrogazioni in presenza (che mettono a nudo la preparazione, senza aiuti di sorta), fuggendo insomma da tutti gli aspetti più scomodi della normale routine scolastica. Se hanno ragione a porre il problema dei mezzi di trasporto, prestano però il fianco alle critiche nel momento in cui la popolazione scolastica viene dimezzata (con l’alternanza settimanale presenza-Did) ed ulteriormente ridotta con gli ingressi scaglionati (un gruppo alle 8, un gruppo alle 10).



Si potrebbe aggiungere che mentre tutta l’Italia fa sacrifici di ogni genere, questi ragazzi dimostrano invece di non essere disposti al sacrificio. Si potrebbe ancora rimproverarli di non essere disposti a prendere l’autobus tutti i giorni per venire a scuola, ma di essere allegramente pronti a prenderlo, senza curarsi affatto del distanziamento, tutte le volte che vogliono farsi un giro in piazza con gli amici, andare al bar per l’aperitivo (ammesso che sia possibile), farsi un giro al centro commerciale per lo shopping.

Però, diciamoci la verità, chi non ha accolto con un certo stupore (per non dire altro) la decisione governativa di tornare in presenza il 7 gennaio? Come dare torto a chi sostiene che non era proprio il caso di prendere questo provvedimento (e infatti la data di rientro dal 7 è stata spostata all’11) in un momento in cui non ci sono affatto condizioni che fanno intravedere un miglioramento della situazione della pandemia? Chi non ha giudicato questa decisione quasi un capriccio ideologico, sganciato dalla realtà? Cosa è stato fatto per migliorare la situazione dei trasporti? È stato aumentato il parco delle vetture appoggiandosi alle ditte private? Nelle realtà dove il distanziamento all’interno delle scuole è molto precario, si è operato per trovare spazi alternativi e aggiuntivi? Insomma, è cambiato realmente qualcosa per giustificare un rientro in presenza? Se la risposta è no, perché si è deciso di riportare gli studenti in classe, tra l’altro senza aspettare la fine di gennaio, cioè, in molte scuole, la fine del primo quadrimestre?

Gli studenti hanno dietro di loro famiglie sempre più terrorizzate dal Covid. Mesi e mesi di notizie allarmanti hanno cambiato la testa della gente: non ci sono più tante persone in giro disposte a dare credito a chi dice che d’ora in poi “andrà tutto bene”. In più ci sono moltissimi docenti che hanno paura di ritornare in aula. Sono quelli che avevano paura già ad ottobre anche solo di toccare i fogli dei compiti scritti degli studenti. Figurarsi ora. Nei loro commenti non è raro leggere frasi come “ci mandano al macello”. Siamo in pieno inverno, fa molto freddo. Il terrore generale prevede che si stia in classe con le finestre aperte per un continuo ricambio d’aria. Qualche preside consiglia perfino agli studenti di tornare in aula attrezzati di coperte o di un abbigliamento molto pesante per sopravvivere. Si rischia la polmonite non per Covid, ma perché si è esposti al freddo esterno per cinque-sei ore scolastiche. Questa, signori, non è una rappresentazione adulterata a tinte noir di quello che accade, è la semplice realtà dei fatti.

In questo caos al quale abbiamo assistito dall’inizio dell’anno scolastico, con slanci eroici e ritirate meste, con nobili affermazioni di principio e smentite clamorose del giorno dopo, con decisioni del governo prese e presto modificate o addirittura ritirate, chi è il responsabile, chi l’irresponsabile (tanto per usare due aggettivi di estrema attualità)? Chi può accusare chi? Chi può impalcarsi a giudice dell’altro? 

La normalità, che abita a fatica nei settori della nostra vita civile, sembra proprio scomparsa dalla vita della scuola. La paura domina, la vita, appena può, si prende la propria rivincita. La protesta clamorosa di questi ragazzi, contro ogni ribalta televisiva, ogni comitato scientifico, ogni decisione governativa, per quanto confusa e contraddittoria, è un vero grido. La scuola italiana si è inceppata per colpa di una gestione politica confusa e addirittura sconsiderata. Rimetterla in movimento non sarà per niente facile.