C’è un personaggio dei Promessi sposi che incarna lo spettro che si aggira oggi più che mai nella scuola e nel mondo: “Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri”.
Se un ragazzo si guarda intorno, sembra che un po’ tutti gli stiano addosso per fargli del bene. Manzoni però sa che può esserci del marcio anche in questa nobile intenzione. Perché, insomma, a quanto pare tutti sanno cosa sia, il tuo bene. Proprio come donna Prassede: “tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello”.
Chi vuole fare del bene confonde le idee che ha in testa con il cielo. È per il tuo bene che devi fare ripetizioni di matematica, prendere il B1 di inglese, prepararti al test di medicina. Altrimenti gli altri andranno avanti, e solo tu… Come ha osservato Miguel Benasayag, “si passa dall’invito al desiderio” (“come fare per mobilitare il suo desiderio?”) all’“apprendimento sotto minaccia. […] A questo scopo ripetono in modo più o meno esplicito un discorso che è in realtà una minaccia: ‘Se non studi a scuola, se non ti diplomi o non ti laurei, non troverai lavoro…’. […] È talmente evidente che nessuno oggi desidera il futuro, che la nostra società propone di ricorrere alla minaccia del peggio”.
La mancanza di desiderio non è un problema così evanescente, se ci sono classi che a settembre cominciano in 31 e a Natale sono già in 23. Dopo tutti questi fallimenti, gli insegnanti si saranno finalmente resi conto che qualcosa non va? Tutt’al contrario: grazie alla scrematura, possono tirare ancora di più con l’élite che è sopravvissuta. Davanti alle lacrime, donna Prassede non può fermarsi. Dubbi non gliene vengono, perché il suo cervello è convinto di dover fare il bene: “Se donna Prassede fosse stata spinta a trattarla in quella maniera da qualche odio inveterato contro di lei, forse quelle lacrime l’avrebbero tocca, e fatta smettere; ma parlando a fin di bene, tirava avanti, senza lasciarsi smovere: come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben trattenere l’arme d’un nemico, ma non il ferro d’un chirurgo”.
Non riescono a fare i compiti, e allora? Si assentano una volta alla settimana, e allora? Non capiscono una beata mazza di latino o di matematica, e allora? Non bisogna mollare, anzi bisogna insistere: per il loro bene, sia chiaro, altrimenti poi nella vita…
C’è qualcosa di disumano in questa ostinazione da chirurgo che non si lascia smuovere dalle lacrime di una ragazza. Siamo fottutamente hegeliani: le lacrime non sarebbero altro che la provvisoria antitesi che sarà poi superata dalla sintesi finale.
E quale sarebbe poi questa sintesi, questo “bene” che dovrebbe valere quanto e più di tutte le lacrime? Cos’è che un giorno le asciugherà e ripagherà ogni singolo sacrificio, completando il meraviglioso percorso di formazione che trasforma gli occhi bagnati dei bambini in quelli secchi degli uomini?
Per le donne Prassede del nostro tempo, il bene significa laurearsi, trovare un lavoro e sistemarsi. Il loro, cioè, è un ideale borghese. Sono decenni che è così, il modello non viene neanche messo in discussione, sembra che per secoli non sia esistita, né che possa più esistere, alcuna alternativa. Non è possibile essere altro che borghesi. Nelle varianti mobili del terzo millennio, ovviamente, di cittadini del mondo senza legami, che se non passeranno a Torino passeranno a Milano, che se non lavoreranno in Francia lavoreranno in Olanda, che se si lasceranno con una se ne troveranno un altro, ma pur sempre borghesi.
Nei licei la puzza di borghesia urta lo stomaco: il ragazzo deve partecipare a progetti e magari vincerli, passare test, andare all’estero, e poi certo sapersi divertire, fare sport, vivere le proprie esperienze, essere leader.
Diventare se stessi è un’ipotesi cancellata. In questa scuola inclusiva siamo arrivati al razzismo: e l’autistico? e il down? e chi non si laurea? e chi non riesce a stare al passo? e chi non sa la matematica o il latino? e i dispersi della scuola? e chi alle feste si annoia? e chi non passa i test? e chi sarà disoccupato? e chi dovrà tirar su tre figli? e chi farà un incidente? chi non diventerà il campioncino che ti aspetti?
Una stampella psicologica e la macchina si aggiusta. Il grido di tanti universitari suicidi non ci riguarda. Il fatto è che quasi mai il suicida avvisa. Piuttosto scrive segretamente della sua vita inconcludente. Ma è proprio la tua sordità a sferrargli il colpo di grazia.
Non si tratta di arrivare, cara donna Prassede che mi circondi dappertutto: si tratta della felicità. Ma di questo chi si preoccupa? Per i praticoni di questo mondo è un miraggio evanescente. Sarà giusto far versare lacrime a chi matematica o latino proprio non riesce a capirli? Sarà giusto per la sua felicità?
Enzo Jannacci non aveva torto: “la bellezza dei vent’anni / è poter non dare retta / a chi pretende di spiegarti l’avvenire e poi il lavoro e poi l’amore”. Io non so quale sia il tuo bene, anzi a volte ti guardo e mi chiedo cosa sarà di te. Può anche darsi che un giorno dirai “che lavoro non ce n’è / che l’amore si fa in tre / l’avvenire è un buco nero in fondo al tram”. In ogni caso io non lo so, non riesco a immaginarlo.
Dante lo insegna praticamente in ogni canto della Commedia, che il “ben far non basta”. “Se segui tua stella, / non puoi fallire a glorioso porto”, si vantava quel povero illuso di Brunetto Latini: e chi non la vede la stella? quelli per cui la vita è “notte senza stelle a mezzo il verno”, come scriveva Leopardi? Quelli come Pier delle Vigne, che perse il sonno e la vita per servire fedelmente l’imperatore, ma poi fu accusato ingiustamente, imprigionato, e non resse al disonore fino al punto da suicidarsi? Davvero quello che siamo coincide con quello che facciamo?
Certo che no, direbbero le mamme premurose, proprio mentre si lamentano dell’ultimo 5 sul registro elettronico. Giusto, dicono gli studenti stressati; ma non sanno liberarsi dalle catene, nemmeno mentalmente. E crepano dentro una “vita bugiarda”. Il XIX del Purgatorio racconta di un uomo che, arrivato al culmine delle riuscite, scopre “che lì non s’acquetava il core, / né più salir potiesi in quella vita”. Non si poteva salire più in alto, eppure lì “non è felicità”.
Più del miraggio di ogni “glorioso porto”, vale la pena scrutare l’“inesauribile segreto” del “porto sepolto” che ci portiamo dentro, “ove per poco / il cor non si spaura”, e naufragare nel “gran mar de l’essere” e nell’ancor più smisurato oceano della propria “lagrimetta”.
Buonconte da Montefeltro è un’anima della Commedia che in vita aveva sbagliato praticamente tutto, ma in extremis fu salvo per “una lagrimetta”. Se il chirurgo ignorava tutte le lacrime di Lucia, fu di una sola lacrima che Dio si innamorò: bastò quella a riscattare tutti i peccati. Figuriamoci se non salverà le insufficienze, le difficoltà, il girare a vuoto, il buio di questa verifica, di cosa farai domani, di cosa sarà di te.
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