La Dad e l’Odissea sono, all’apparenza, due mondi opposti: tanto è avventuroso il poema omerico quanto inutili risultano le mattinate dietro uno schermo. Nell’Odissea ne succedono di tutti i colori; in Dad invece non succede mai niente, e ci vuole troppa fantasia affinché quel cerchio colorato su sfondo nero possa immaginarsi come l’occhio del ciclope. A meno che in una prima del liceo scientifico non ti ritrovi in aula (virtuale) Adriana, Francesca, Gabriella, Giorgia, Marcella, Rocco, Rosa: a quel punto la normale ora di lezione prende vita come un’avventura di Ulisse. E mentre il mondo continua a ripetere che la Dad non è la vera scuola, succede che durante una primavera di didattica a distanza si legga l’Odissea in versione integrale, e fioriscano pensieri immensi, scoperte, lacrime e perfino un libro.



Pubblicato da Bonomo Editore, Letture di classe, volume 2, a cura mia e di Carmen Rota, è il secondo quaderno della Bottega del Libro fondativo, l’intuizione di alcuni insegnanti dell’associazione Diesse – in particolare di maestre elementari – che ai nostri studenti sia indispensabile come l’aria conoscere i classici della letteratura.



Quando mi hanno proposto di raccontare cosa accade in classe leggendo l’Odissea, mi sono fiondato da qualche mio alunno, ponendo la condizione di scriverlo insieme. Il libro fotografa le scintille che si accendono nell’incontro tra le parole di Omero e quelle dei ragazzi: parole che non nascono e muoiono nel fugace arco di un intervento orale, ma che spingono per esplodere, vengono meditate, pronunciate, poi scritte, infine pubblicate. Intorno ne zampillano mille altre, di poeti, cantanti, critici, alunni che a distanza di anni si sono inaspettatamente ritrovati la letteratura come compagna nel buio di una stanza di ospedale o nel batticuore di uno spogliatoio prima di scendere in campo.



Primo punto metodologico: generalmente “l’insegnamento della letteratura si riduce”, come osservava Cesare Acutis, “a una serie paradossale di esercizi intorno a un oggetto assente”: a scuola non si legge l’Odissea, ma si parla di epica, di questione omerica, di epiteti, con qualche brano antologizzato negli esangui manualetti in adozione; invece, innanzitutto, ci vuole il libro tra le mani, la “vera presenza” dell’opera, come ci ha insegnato George Steiner: senza testo non c’è lezione come senza pallone non c’è partita.

Secondo punto, diciamolo con Pavese: “non si vede con che diritto, davanti ad una pagina scritta, dimentichiamo di essere uomini e che un uomo ci parla”. Possibile che neanche una pandemia abbia scalfito l’ossessionante binario spiegazione/interrogazione? Il programma va avanti, l’alunno resta fermo, come un Telemaco inchiodato su un’isola (assediata dai proci) mentre sirene, incantesimi, divinità si susseguono stupendi ma lontanissimi da lui. Occorre che insegnanti e studenti alzino gli occhi lucidi dalle pagine che con la loro potenza di verità entrano a gamba tesa nei nostri lockdown esistenziali, e che si riconoscano, come uomini che condividono le pene e gli entusiasmi, non come funzionari che svolgono il loro dovere senza capire perché.

Tra le righe di questo libro – come in classe o quando meno me lo aspettavo – si intravedono ragazzi che tolgono l’armatura che quasi sempre nasconde l’anima nella formalità della messinscena scolastica e mostrano i propri talloni d’Achille: è a questi nervi scoperti che parlano i classici. Non esiste lettura quando un’opera non viene investita dalle proprie domande, non esiste dialogo tra esseri anestetizzati, che non brucino di una ferita inguaribile o di una sete estenuante. Questi liceali che si confrontano con Odisseo, Calipso e i proci hanno già fatto i conti, nella loro esistenza, con gli aculei del destino: come potrebbe, la scuola, ostinarsi a procedere in parallelo? Se Omero ha qualcosa da dire, si vedrà mentre il Covid e la distanza e le solite quattro mura e il dolore agli occhi incalzano, quando non vuoi alzarti dal letto o cominci la chemio o un infarto ti ruba tuo padre; altrimenti sarà considerato cieco davanti alle sfide della vita reale.

Siccome è raro avere un’Odissea tra le mani, a pochi capita di leggere la scena del IV libro in cui Menelao, in pieno festeggiamento per il matrimonio dei figli, al fianco della donna più bella del mondo, confida a Telemaco che “tutto viene a noia”. Di cosa priviamo i nostri alunni quando tagliamo questa scena? Innanzitutto di una parte dell’opera: per chi si lascia incantare dalle sirene del digitale o è ansioso di trasformare gli alunni in porci che brucano esercizietti, leggere l’Odissea per intero è tempo perso. Ma l’Odissea esiste, e soprattutto esiste la noia: non nei personaggi di un poema, ma nel cuore nostro e dei nostri studenti. Se la mia noia non viene intercettata dall’arte, da cosa sarà intercettata, e manipolata? Quando un insegnante non permette l’incontro con i classici, impedisce a un’anima inquieta di cominciare a costruire la propria identità.

“A Menelao ‘tutto viene a noia’ (come già aveva detto nell’Iliade). Anche a me. Io ho tutto, ma non sono contenta: prima pensavo che fosse egoismo avere tutto e non farselo bastare, ma leggendo mi sono resa conto che non è sbagliato. In questo passo è come se sentissi le parole di Menelao sulla pelle: lui ha tutto, mille ricchezze, però non è contento, non lo è perché gli manca qualcosa, gli manca suo fratello, gli mancano i suoi compagni. Spesso mi sento così: pur avendo tutto, non sono contenta, ed è come smettere di respirare, sprofondare nel buio o cadere nel vuoto sperando che qualcuno ti prenda. In questi giorni più che mai mi sento sola come Menelao, chiusa in una stanza aspettando che qualcuno mi salvi dal vuoto che ormai riempie la mia vita e le mie giornate”.

Vi pare poco se una persona non si sente più sbagliata? Si è accorta di essere un vuoto bisognoso di salvezza, di essere come Odisseo, che a volte le indovinava e a volte si ficcava nei guai, ma intanto Penelope lo aspettava. A scuola si può scoprire che c’è qualcuno che ti aspetta da molto più di vent’anni, e si chiama Omero.

A questo punto tutto torna in gioco: cosa farà l’eroe una volta tornato a Itaca? Investirà di avventura la sua isola o riprenderà a perdersi? In queste pagine i miei alunni provano a ipotizzarlo, scrivendo il loro XXV canto, il loro canto libero. Omero però non lo racconta, così come la scuola non racconta cosa farà un ragazzo dopo aver trovato una casa in cui non si sente più sbagliato, dopo aver scritto un libro in cui la scuola più algida è diventata la vita più infuocata.