La riapertura delle aule scolastiche a settembre riporta a galla un dilemma tipico di questi anni: smartphone sì o smartphone no? Come comportarsi di fronte alla presenza strabordante degli infernali apparecchietti nelle mani anche di bambini della scuola primaria? Proibire? Tollerare? Cercare di trasformarli da problema in risorsa? Educare all’uso responsabile? E come farlo?
Premetto che sono un insegnante di scuola media superiore, quindi non ho a che fare con bambini piccoli, né con preadolescenti; che sono sempre stato un convinto sostenitore dell’uso didattico delle cosiddette “nuove tecnologie”, smartphone compreso. Ritengo infatti che proibirle sia una battaglia persa e uno spreco di opportunità. Battaglia persa perché non mi garantisce una maggiore attenzione da parte di alunne e alunni infastiditi dai miei divieti. Inoltre darebbe l’idea di una scuola che non sa stare dentro la realtà di oggi, tutta permeata da schermi retroilluminati di ogni dimensione. Una scuola così rischia di buttar via enormi potenzialità positive e non aiutare i suoi alunni ad affrontare il contesto in cui sono immersi.
Un aiuto ad approfondire questi problemi è giunto dall’ultimo Meeting di Rimini, che li ha affrontati in due incontri specifici, intitolati rispettivamente Social e intelligenza artificiale: non serve lo schermo per crescere smart e L’intelligenza artificiale va a scuola?. Saranno il termine di paragone in questo mio lavoro, che intendo come contributo ad un dibattito in corso su questioni più che mai aperte.
Proprio gli interventi sul tema del primo dibattito hanno cominciato a mettere in discussione il giudizio da me espresso nelle righe sopra; sembrano infatti sottintendere una presa di posizione negativa in partenza, basata però su studi scientifici, non su una “scelta di campo”. Ad esempio, quelli citati da Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, su pericoli e danni provocati dall’esposizione troppo precoce agli influssi delle tecnologie digitali, in particolare degli smartphone. Pellai ha parlato di crescita del disagio in età evolutiva, di indicatori di salute mentale in peggioramento, di riduzione delle ore di sonno (mediamente una o due in meno per notte), di frammentazione dell’attenzione, di vere e proprie forme di dipendenza, delle quali ha descritto con precisione il meccanismo, basato sulla produzione di dopamina indotta dalle caratteristiche tipiche di certi social. “Una volta i genitori dovevano imporre ai figli di chiudersi nella loro camera come forma di punizione – ha detto fra l’altro – Oggi devono minacciare di staccare il Wi-Fi per convincerli ad uscire”.
Ho avuto esperienze personali di questo attaccamento patologico allo smartphone, anche se si trattava di casi singoli, non di un fenomeno così generalizzato fra le mie scolaresche. Mi torna in mente il caso di un ragazzo considerato intelligentissimo, che si è fatto bocciare a scuola perché non riusciva a staccarsi un minuto dallo schermo del telefono e non studiava assolutamente niente. Ma mi sorge subito una domanda: il problema era l’eccessivo attaccamento al telefono o il fatto che non trovasse stimoli adeguati nel corso di studi che aveva intrapreso e nelle figure adulte che aveva davanti (me compreso, che non ero suo insegnante ma semplice amico)?
Anche su questo ho trovato spunti interessanti negli interventi di Pellai al Meeting. Ad esempio, quando il moderatore ha posto un quesito: di fronte a una tecnologia che cambia rapidamente, che responsabilità educative emergono? Oggi c’è la tendenza a porre dei “limiti di età”. Cosa ne pensiamo? Pellai ha risposto: “Io costruisco lo sviluppo della mente del bambino proponendo stimoli e relazioni adeguati al momento della crescita in cui si trova. Ogni età ha il suo stimolo adeguato”. Quella fra i 9 e i 14 anni, secondo lui, è estremamente fragile di fronte alla proposta della “vita on line”, che stimola nel cervello i desideri di gratificazione immediata ed offre un mucchio di altri stimoli, oltre a quelli necessari per la crescita. Nella mente degli adolescenti si scatena uno tsunami. Vengono accelerate le funzioni emotive del cervello, che è sempre affamatissimo di stimoli immediati mentre fatica molto a seguire i procedimenti cognitivi e formativi. “Un dodicenne ha il cervello emotivo che viaggia a 200 all’ora, quello cognitivo a 5 all’ora e non gli sta dietro; è compito dell’adulto porre sempre in evidenza l’obiettivo della crescita della persona”. Qui torna il discorso dei limiti e dei divieti: Pellai cita alcuni sistemi scolastici avanzati che scelgono di togliere lo smartphone di mano agli studenti in base a ricerche scientifiche ed esperimenti che dimostrano un miglior rendimento senza e un peggioramento lasciandoglielo a disposizione. In 5 Paesi europei vige il divieto di portarlo in aula: Norvegia, Finlandia, Svezia, Gran Bretagna e Francia.
Un altro contributo improntato alla preoccupazione per l’uso eccessivo e precoce dello smartphone è quello di Maryanne Wolf, neuroscienziata americana. “Si pensava che esponendo i bambini a linguaggi di tipo diverso migliorasse il loro sviluppo linguistico – ha detto riferendosi alla compresenza di strumenti digitali e di linguaggi tradizionali –. Studi recenti hanno dimostrato che, almeno in parte, non è vero. Hanno fatto emergere una relazione inversa fra quantità di esposizione dei bambini a dispositivi digitali e sviluppo cerebrale nell’area dell’attenzione; anche la relazione con il rendimento scolastico, è risultata inversa. Si può prevedere – ha aggiunto – che con il tempo scopriremo che le aree dell’attenzione saranno meno sviluppate e connesse”. Citando un suo libro, ha poi descritto il cosiddetto “effetto riccioli d’oro”: le regioni linguistiche del cervello dei bambini si sviluppano di più quando qualcuno legge loro una storia e restano molto meno attive quando vedono tutti i “fronzoli” tipici dei dispositivi digitali. Conclusione: non è l’esposizione a tante parole che ci aiuta a sviluppare la mente, ma il fatto che qualcuno parli a noi. Wolf si riferiva ai bambini piccoli, ma il suo discorso mi ha richiamato alla mente un fenomeno che ho constatato spesso: studenti e studentesse diligenti, dal profitto ben più che sufficiente, invitati a spiegare una frase o un capoverso del libro di testo gli facevano dire l’esatto contrario di ciò che realmente conteneva. D’altronde, sono anni che è emerso il problema; una percentuale elevata di studenti medi superiori non capisce ciò che legge. Potrebbe esserci un legame con i fenomeni descritti da Maryanne Wolf?
Tutto ciò che ho riportato finora induce a pensare che sia opportuno escludere l’uso dello smartphone almeno per il tempo dedicato all’attività didattica in presenza, per gli alunni ed alunne più giovani; diciamo fino al primo biennio delle superiori. Resto dell’idea che non sia la soluzione di tutti i problemi; gli interventi degli scienziati che ho riportato, però, mi suggeriscono l’utilità di avere dei momenti e spazi “digital free”. È una tematica che merita di essere approfondita ulteriormente.
(1 – continua)
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