Tra le novità di questo anno scolastico vi è il piano del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara per sostenere lo studio degli alunni “stranieri” nelle scuole patrie. In realtà non è una vera e propria novità, perché da anni ogni scuola, in qualche modo, pratica l’usanza – tutta nostrana – di “arrangiarsi” per offrire corsi di italiano come L2 (lingua seconda) agli studenti non italofoni.



Secondo la glottodidattica, ovvero la disciplina che si occupa di approfondire i meccanismi di apprendimento di una lingua e delle modalità di insegnamento di essa, con il termine lingua seconda (L2) si intende la lingua appresa nell’ambiente dove essa – in questo caso l’italiano – costituisce il canale di comunicazione principale, se non unico. In questi anni di autarchia, dunque, si è andati avanti spesso con progetti di istituto, nei quali gli insegnanti, perlopiù privi di un’adeguata preparazione glottodidattica, si improvvisavano docenti di italiano L2.



In realtà la situazione è più ricca e complessa, anzi strutturata, ma non è mai entrata nella scuola italiana dalla porta principale: qui risiede il problema. Fare sistema nel nostro Paese pare impossibile! In Italia “solo” dal 2016 esiste la classe di concorso A023, denominata “Lingua italiana per discenti di lingua straniera (alloglotti)”, dedicata all’insegnamento dell’italiano L2 agli studenti stranieri, specificatamente operativa nei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA). Negli ultimi concorsi i posti messi a bando per A023 sono pochissimi, poiché tali cattedre, in base all’ordinamento attuale, possono essere solo presenti nei circa 130 CPIA sparsi nel territorio nazionale e non in altre tipologie di scuole, e quasi mai sono nell’organico di potenziamento delle scuole di ogni ordine e grado.



Per l’accesso a questa classe di concorso, che corrisponde a una materia scolastica, sono richieste specifiche lauree e certificazioni di secondo livello in glottodidattica (CEDILS, DITALS II, DILS-PG II) o un master di didattica della lingua italiana. Ma cosa si nasconde dietro quegli acronimi? La differenza consiste solamente nel fatto che sono erogate da tre enti diversi, ma l’obiettivo delle tre certificazioni è lo stesso: certificare le competenze dei futuri insegnanti d’italiano a stranieri.

Se la Certificazione CEDILS dell’Università Ca’ Foscari di Venezia presenta un unico livello che il MIM già dal 2016 considera direttamente un secondo livello, le altre due, DILS-PG, erogata dall’Università per Stranieri di Perugia, e la DITALS, erogata dall’Università per Stranieri di Siena, hanno due livelli distinti.

Ma a queste certificazioni dedicate alle competenze glottodidattiche degli insegnanti corrispondono altrettante certificazioni della conoscenza della lingua italiana secondo i livelli del Quadro comune di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER), che è un sistema descrittivo riconosciuto internazionalmente per valutare le quattro abilità linguistiche (parlare, comprendere, ascoltare, scrivere), ovvero i vari livelli di padronanza della lingua, da principiante ad esperto.

Qui per la nostra lingua si apre una vera ed propria giungla di certificazioni, a differenza di altri Paesi che ne hanno una sola: per esempio, la certificazione di spagnolo DELE viene conferita dal ministero dell’Educazione, Cultura e Sport della Spagna, ma gli esami sono organizzati dall’Istituto Cervantes di Madrid in diverse sedi e i test vengono valutati dall’Università di Salamanca; oppure il DELF (livelli base) e il DALF (livelli avanzati) per la lingua francese sono rilasciate dal ministero francese dell’Educazione Nazionale e sottoposte all’autorità di una specifica Commissione nazionale.

Veniamo all’Italia: CILS – Certificazione di italiano come lingua straniera (Università per Stranieri di Siena); CELI – Certificato di lingua italiana (Università per Stranieri di Perugia); PLIDA – Progetto lingua italiana Dante Alighieri dalla Società Dante Alighieri; CertIt – Certificazione italiano (Università di Roma Tre); e, infine, pur senza un riconoscimento formale da parte delle autorità ministeriali, AIL, promosso dall’Accademia italiana di lingua, un’associazione no profit di scuole private e pubbliche che insegnano l’italiano come seconda lingua. Tutte, tranne AIL, fanno parte di un consorzio denominato CLIQ (Certificazione lingua italiana di qualità).

Nel ricco panorama qui tratteggiato, il cittadino, non addetto ai lavori del pianeta scuola, si potrebbe chiedere: “ai fini dell’accertamento obbligatorio delle competenze in ingresso nella lingua italiana secondo il Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER), nonché per la predisposizione dei Piani didattici personalizzati finalizzati al pieno inserimento scolastico degli studenti stranieri che si iscrivono, per la prima volta, al Sistema nazionale di istruzione” – come recita il comma 2 dell’articolo 11 del “decreto scuola” 71/2024, convertito in legge – le scuole potranno avvalersi dell’imponente apparato certificativo che è disponibile nel nostro Paese? Sarebbe auspicabile, per un migliore e serio accertamento, anche se la legge specifica “nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”. Che tradotto vuol dire, spesso, per il mondo della scuola, a costi zero. Ma della possibilità di impiego  di questo mastodontico apparato certificativo non vi è alcuna menzione nella legge, purtroppo.

E comunque da settembre si parte, dove necessario. Nella legge, si precisa che nelle classi in cui vi è almeno il 20% di studenti “stranieri”, cioè di quanti si iscrivono per la prima volta a scuola senza le competenze linguistiche di base in lingua italiana, verrà in aiuto un docente dedicato all’insegnamento dell’italiano per stranieri. In teoria, in una classe media di 25 alunni, ad esempio, devono esserci almeno 5 “stranieri” per avere il professore di lingua. Il MIM tiene conto del fabbisogno per la classe di concorso “Lingua italiana per discenti di lingua straniera” (classe di concorso A023) derivante dall’applicazione di questo parametro. Secondo alcuni osservatori esperti del mondo della scuola, il limite del 20% per classe e non per scuola o gruppi di scuole nello stesso territorio renderebbe l’applicazione della norma, pur animata da buoni propositi, impraticabile, in quanto non aderente alla realtà, e quindi con il conseguente sospiro di sollievo per le finanze pubbliche, anche se utilizzano dati massivi senza filtri di alcun genere (es., alunni di recente immigrazione, nati all’estero, ecc.). Pare logico tale parametro? Vedremo.

Nell’a.s. 2022-23 la percentuale di alunni con cittadinanza non italiana superava il 20% degli alunni presenti. Infatti, nelle scuole italiane nel 2022-23, c’erano circa un milione di studenti con cittadinanza non italiana, ovvero l’11,3% del totale degli iscritti, mentre nell’anno precedente erano 865.388. Di questa popolazione scolastica, grosso modo, un terzo è inserito alle elementari, il 19% alle medie e il 21% alle superiori. Un altro divario tra Nord e Sud del Paese: metà degli alunni stranieri sono al Nord, in cui la Lombardia arriva quasi al 25% (238.254). Infine, un’ultima annotazione: il 67% degli alunni con cittadinanza non italiana è nato… in Italia!

Sulla base del quadro appena esposto, per fronteggiare l’emergenza della conoscenza della lingua italiana da parte degli alunni stranieri sarebbe sensato spostare il limite del 20% dalla classe alla scuola o gruppi di scuole dello stesso territorio, e, a differenza di quanto accade oggi, dare più cattedre della A023 per i CPIA, anche in supplenza annuale, oppure incrementare il numero di cattedre sulla A023 nei prossimi concorsi. I docenti con master in didattica dell’italiano come L2 o in possesso delle certificazioni glottodidattiche sono già formati e numerosi: perché il MIM non attiva un censimento? Bisogna creare specifici protocolli di intesa – obbligatori – con le università che gestiscono il lucrativo mercato della certificazioni, perché esse entrino nella scuola italiana per gli alunni stranieri, naturalmente a titolo gratuito.

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