Ha fatto molto discutere – anche con argomentazioni a volte sopra le righe – la decisione del nuovo governo di mutare l’intitolazione del ministero dell’Istruzione, aggiungendovi la menzione “e del Merito”. Discussioni quasi certamente oziose e destinate a rapido oblio: ma la questione non è nuova.
Sorprende, sotto questo profilo, che sia stato proprio il ministro Valditara a intestarsela, lui che era uno dei più stretti collaboratori del ministro Gelmini al tempo, non troppo lontano, in cui questa lanciava insieme a Roger Abravanel il suo “Piano nazionale per la qualità e il merito”. Dovrebbe sapere per esperienza diretta che fine fece quell’impegnativo progetto.
Come pure, in virtù della sua formazione umanistica di indubbio livello, dovrebbe sapere che le innovazioni di natura valoriale e a forte valenza simbolica non si annunciano, ma si mettono in pratica silenziosamente. Se ci si riesce, naturalmente. In caso contrario, si corrono due rischi: uno derivante dall’opposizione di principio di chi non accetta quei valori e l’altro derivante dal probabile insuccesso dell’iniziativa. E tuttavia la questione, in una scuola come la nostra, è tutt’altro che irrilevante.
Basti pensare alle elaborazioni dell’Invalsi, poco più di un anno fa, da cui emergeva come le valutazioni “interne” del merito nelle scuole fossero diametralmente opposte rispetto a quelle “esterne” dell’istituto. Interi territori in cui le competenze di lettura e di calcolo degli studenti si collocavano per oltre il 60% al di sotto del livello minimo accettabile, ma che riportavano, negli esami di Stato (di Stato!) valutazioni nettamente superiori alle medie nazionali. Evidentemente, gli strumenti di misura sono tarati nei due casi su obiettivi divergenti: il che significa che l’idea di “merito” sottostante alle due valutazioni è radicalmente diversa.
Ora il vero problema, per un ministro dell’Istruzione – tanto più se sceglie di intitolarsi anche come garante del merito – sta proprio qui: può un sistema di istruzione che si vuole tuttora nazionale permettersi il lusso di una divaricazione così radicale fra le valutazioni compiute dal suo maggiore istituto di riferimento scientifico nella materia e quelle operate dai suoi insegnanti? Su quale dei due termini si dovrà intervenire per richiudere, o almeno ridurre, il divario attuale?
Si dovrebbe, per carità di patria, escludere che a sbagliare clamorosamente sia l’Invalsi: vi lavorano alcuni fra i migliori specialisti del settore e, del resto, i modelli cui ispira la sua azione sono largamente condivisi e praticati a livello internazionale. Su un mercato del lavoro che si fa sempre più globale, non è irrilevante che la valutazione – e, implicitamente, la promozione del merito – avvenga sulla base di criteri transnazionali. E dunque, salvo errori di dettaglio sempre possibili, le valutazioni del sistema nazionale sono da ritenersi attendibili.
Se ne dovrebbe inferire che a sbagliare siano gli insegnanti, o almeno quelli fra loro i cui giudizi più si discostano dalle rilevazioni scientifiche nazionali. Non è una tesi che si possa sostenere a cuor leggero: eppure è vero – e ben lo sanno tutti coloro che hanno esperienza di scuola vissuta – che, quando un insegnante “valuta” i propri studenti, il merito accademico è solo uno dei parametri presi in considerazione. Spesso (troppo spesso?) quel giudizio incorpora una misura importante di valutazione della persona. Non che questo sia sbagliato in sé: dipende però, ancora una volta, da quali sono i parametri utilizzati.
Volendo semplificare, senza eccedere, i più frequenti sono due: una misura di “risarcimento” per le difficoltà personali dello studente che hanno potuto incidere sul suo rendimento scolastico (fattori familiari, socioeconomici, eventi negativi eccetera); e un giudizio di adeguatezza sociale, cioè quanto la personalità dello studente nel suo insieme sia vicina a un modello di desiderabilità sociale percepita. Detto in termini più diretti: quanto quello studente sembri potersi adattare positivamente alle richieste della comunità nella quale si prepara a inserirsi. Non solo per quello che “sa”, ma per quello che “è”.
Questa affermazione può suonare discutibile o apparire fondata su assunti non verificabili, e certamente è così a livello dei singoli casi. Ma, ancora una volta, le politiche scolastiche si fanno sui grandi numeri. E i grandi numeri ci mostrano, con una costanza che merita considerazione, che, nei territori in cui il capitale sociale – misurato con i criteri sociologici correnti – è elevato, gli insegnanti tendono a essere più esigenti, in quanto percepiscono che i loro studenti dovranno mostrarsi all’altezza di un contesto più sfidante. Il contrario avviene là dove il capitale sociale è di livello mediocre o insoddisfacente. Ci sarà una ragione se il Trentino è in cima alle classifiche: e mi sia concesso di evitare di indicare esempi di segno opposto, che peraltro sono noti a tutti.
Che questo accada non è sostanzialmente materia di dubbio: perché accada, può esserlo. Se, cioè, insegnanti di territori ad alto capitale sociale siano essi stessi partecipi di aspettative elevate e quindi tendano a essere esigenti nel giudizio; ovvero semplicemente perché operino una comparazione implicita fra quello che vedono essere il livello delle aspettative sociali e quello che percepiscono essere il livello di preparazione degli studenti.
Se questa diagnosi fosse vera, anche solo in parte, essa metterebbe ancor più radicalmente in discussione la scelta compiuta dal ministro, non perché la ricerca del merito non sia necessaria nella nostra scuola, ma perché essa dipenderebbe soprattutto da fattori sociali e non organizzativi, e quindi fuori della sua diretta portata; in sostanza, dalla possibilità di agire su leve in grado di migliorare – molto lentamente, come è ovvio – il capitale sociale di ampie parti del nostro territorio. Il che non è solo una questione di reddito pro capite, ma include, fra altri, anche quell’aspetto.
Nel frattempo, una politica scolastica che voglia promuovere il merito deve puntare con maggiore decisione e costanza di quanto non sia accaduto fino ad oggi sul rafforzamento del Sistema nazionale di valutazione: se non altro, per fornire all’opinione pubblica e agli addetti ai lavori la misura e l’evidenza di quel che sarebbe desiderabile.
Rafforzare il Snv, a sua volta, comporta altre scelte politiche: ardue, ma non impossibili e neppure oltremodo costose. Per esempio, la messa a regime della valutazione esterna delle scuole, fino ad oggi solo sfiorate da quell’intervento. Servirebbero, secondo calcoli attendibili (condotti ad esempio da TreeLLLe), non più di 300-400 ispettori, da dedicare in buona parte a questo scopo.
Che non vi siano, su 800mila docenti, 400 potenziali valutatori di buon livello non è verosimile e non è possibile. Basterebbe mettersi con decisione e coerenza su questa strada e, nel giro di cinque anni potremmo aver dato al nostro sistema un impulso ben altrimenti efficace verso la promozione del merito che non una semplice scelta onomastica.
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