Riflessioni sullo stato della scuola a metà estate. A qualche settimana dalla conclusione definitiva di un anno scolastico e prima dell’inizio del nuovo, troviamo un po’ di agio per guardare le cose da lontano. L’agio però si tramuta in sconforto a vedere come sono andate le cose e come andranno. Su quest’ultimo punto non è difficile fare previsioni: tutte le scuole saranno manchevoli di insegnanti, bidelli e personale di segreteria, molte anche (ancora!) di dirigenti. “Quota 100” infatti ha prodotto migliaia di pensionamenti e le assunzioni in ruolo sono enormemente sottodimensionate, quindi avremo più supplenti, più precariato, nessuna continuità, nessuna stabilità educativa e didattica. Proprio una bella prospettiva.



Ma guardiamo al passato, limitandoci ai risultati della fine del corso di scuola superiore, altrimenti ci perdiamo nella solita giungla che è la scuola.

Questi risultati ci consegnano un intreccio bislacco, di cui siamo già stati informati, che viene dal confronto tra i dati delle prove Invalsi, svolte per la prima volta anche in quinta superiore, e i voti della maturità. Le prove Invalsi (italiano, matematica e inglese) mostrano che a livello nazionale il 42% degli studenti “presenta gravi ritardi” e di questi il 60% sono al Sud (Campania, Puglia, Calabria, Sardegna e Sicilia soprattutto); il 45% degli studenti in Calabria non sa praticamente leggere (figuriamoci scrivere), il 60% in Sardegna non capisce nulla di matematica, l’85% dei ragazzi calabresi e siciliani non ha alcuna idea dell’inglese. Come hanno affermato all’Invalsi, “è come se in Calabria uno studente su quattro non fosse andato a scuola”. Fantastico. Soldi spesi bene.



Ma la faccenda diventa farsesca quando si guardano i voti della maturità: quest’anno si è registrato il boom dei 100 e lode, e dove? Al Sud! Migliaia in Puglia; le città col numero più alto di ragazzi geniali e studiosi sono Aversa (Campania) e Licata (Sicilia); la Calabria, pur non avendo neppure un quinto degli abitanti della Lombardia (neanche due milioni rispetto a dieci), ha quasi lo stesso numero di 110 e lode (447) di quei somaroni lombardi (484) che, per quanto riguarda gli esiti della maturità, risulta la peggiore d’Italia. Si vede che nella terra di Manzoni, dell’high-tech e dell’internazionalità milanese di studiare non ne hanno proprio voglia.



Qual è dunque il possibile commento? Dei tanti, esilaranti, viene in mente quello di una dirigente siciliana che, rispetto al rovesciamento Invalsi/maturità, ha affermato che “cinque anni contano di più di una prova Invalsi”. La splendida arte delle giustificazioni barocche meridionali! Un barista di Siracusa, a cui chiedevo perché i siciliani lascino l’immondizia sul bordo di tutte le loro strade, mi ha risposto che la colpa è dei molti pachistani che vivono in città. Che meraviglia!

Tagliamo la testa al toro: il commento è che l’esame di maturità è una buffonata. Lo è il “nuovo”, e lo erano tutti quelli degli ultimi decenni. I mali della scuola sono tanti e questa è la prova che uno dei maggiori è l’incapacità del sistema scolastico di darsi un criterio nazionale di valutazione del percorso, nonostante i milioni buttati nelle università, nell’Invalsi e compagnia bella. A questo punto ci si chiede davvero che senso abbia tutto questo spreco offensivo di risorse e lavoro, che senso abbiano i voti e, alla fine, che senso abbia il valore legale del titolo di studio, in un luogo dove “è come se in Calabria uno studente su quattro non fosse andato a scuola” (ma si diploma con lode).

Ancora più ridicole, però, sono le motivazioni che la pletora di dirigenti ed esperti, accademici e giornalisti, dal Miur in giù, dà del disastro dell’apprendimento in Italia. Sono di due tipi, strettamente connessi: la didattica inadeguata (cioè gli insegnanti insegnano male) e la necessità di formazione (cioè gli insegnanti insegnano in modo antiquato).

Ora, mi sono qui divertito a far notare la tragica ridicolaggine della situazione al Sud, ma, oltre ad essere meridionale io stesso, devo invece rivelare che gli insegnanti meridionali che incontro, sia che lavorino al Nord sia al Sud, sono generalmente ottimi professionisti, né più né meno degli altri colleghi. Il fatto è che i nostri dirigenti continuano ad omettere un elemento che invece sarà ora di cominciare a considerare in tutto il complesso della politica scolastica: i condizionamenti sociali e familiari sull’impegno e la considerazioni che i ragazzi hanno dello studio.

Ci sono altri dati che si potrebbero guardare: ad esempio una parte della prova Invalsi, di carattere statistico, chiede agli studenti quanti libri abbiano in famiglia. Vediamo dunque i dati sulla lettura Regione per Regione: l’Istat ci dice che in Italia “sono il 41% le persone di 6 anni e più che hanno letto almeno un libro per motivi non professionali” ma la quota crolla al 28% al Sud, e ciò significa semplicemente che al Nord, con quasi il 50%, si legge non il doppio, ma quasi. Per pietà non cito la Calabria. Inoltre sempre l’Istat ci informa che “L’abitudine alla lettura si acquisisce (soprattutto) in famiglia. Tra i ragazzi di 11-14 anni legge l’80% di chi ha madre e padre lettori e solo il 39,8% di coloro che hanno entrambi i genitori non lettori”. Ma guarda un po’: non sarà che il menefreghismo rispetto al valore dell’istruzione, della cultura, della conoscenza, dell’italiano della matematica e dell’inglese comincia altrove che a scuola?

Noi docenti sappiamo bene due cose: quanto sia duro educare un ragazzo se alla famiglia non interessa un fico secco, e quanto conti, soprattutto in meridione, l’influenza ambientale, di casta (ci sono ancora), del clan familiare, del paese, della società… Un’altro dato conosciamo tutti bene: di ragazzi in gamba il meridione è pieno, ma gran parte di questi, desiderosi sia di apprendere che imparare, se ne va, frustrato dal clima di chiusura e corruzione esistente. Apriamo gli occhi: i posti che valgono nel mondo del lavoro, dell’università (quelle a numero chiuso) e della politica, sono già tutti destinati, con criteri di tipo mafioso, ai soliti noti, figli dei soliti notabili. La meritocrazia non esiste: chi merita e non ha appoggi deve andarsene, fenomeno drammaticamente in aumento. Cosa vogliamo che importi la valutazione scolastica?

In più: gli insegnanti oggi in tutt’Italia rischiano l’incolumità se sono “veritieri” nella valutazione. Non c’è bisogno di ricordare quanti di loro vengono picchiati, insultati o denunciati se il giudizio dato non corrisponde a ciò che la famiglia desidera. E in quali Regioni sarà mai il numero più alto di queste violenze, pur essendo anche questo un problema nazionale? Basterà concludere con due episodi d’attualità: a Catania un’insegnante è stata denunciata per maltrattamenti e plagio per aver letto il diario di Anna Frank e un’altra, a Palermo, perché i suoi studenti in una ricerca hanno accostato le leggi razziali fasciste all’attuale politica migratoria: entrambe punite dai dirigenti, sempre più, ministro compreso, schierati a priori contro i loro docenti, tenuti in continuo stato di pressione a centinaia, soprattutto al Sud. Con quale tranquillità daranno i voti, lo si capisce bene. Tra parentesi: a difendere la prof di Palermo sono stati i suoi studenti, tra i quali uno di quinta superiore, tra i più meritevoli, che appena diplomato è stato per i suoi meriti subito chiamato da una università a studiare… a Torino!