Il dibattito sull’insegnamento della storia avvenuto anche sulle pagine di questo giornale, le iniziative per la Giornata della Memoria effettuate in tutta Italia e la recente uscita del film di Sam Mendes 1917 a qualche giorno dalla mia introduzione in classe della Prima guerra mondiale, mi offrono l’occasione di mettere in ordine qualche pensiero sull’esperienza di insegnante di lettere nella scuola secondaria di primo grado.
Insegno, quest’anno, in una classe terza. Più o meno i libri di testo di storia (a qualunque casa editrice appartengano) affrontano nell’ordine, in ciascuna classe del triennio: Medioevo, Età moderna ed Età contemporanea. La storia antica si studia alla Primaria, relegata alle medie a qualche scheda introduttiva nel volume della classe prima.
Ammetto di non aver del tutto seguìto, finora, il manuale che ho in adozione, e di aver costruito il percorso della classe in maniera un po’ fantasiosa, cercando di concertare al meglio le risorse a disposizione anche in italiano e geografia. Ritengo infatti che l’interdisciplinarietà si riveli un potente strumento, utile tra le altre cose a dilatare il tempo a disposizione per l’insegnamento della storia (cui sono riservate solo due ore a settimana) senza contemporaneamente rinunciare agli obiettivi previsti nelle altre discipline.
La visione del film Il diritto di contare si può associare alla lettura del celebre discorso I have a dream di Martin Luther King; fornisce l’occasione per parlare della corsa allo spazio e introdurre la Guerra fredda; di riprendere, attraverso l’osservazione dei primi calcolatori Ibm acquistati dalla Nasa, il lavoro svolto sulle rivoluzioni industriali studiate a settembre in chiave comparativa e toccate con mano nell’uscita didattica al villaggio operaio di Crespi d’Adda e nella visita ad un’azienda del territorio che la mia classe ha avuto l’opportunità di conoscere, anche in chiave orientativa, impattando con il mondo reale del lavoro.
In una prospettiva interdisciplinare, la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti può permettere di riprendere le fasi della colonizzazione, dando ragione di alcuni fenomeni studiati parallelamente in geografia sul Nord America, nella distribuzione delle lingue e della popolazione del mondo, sui confini degli Stati e sull’economia, e può permettere di anticipare l’epoca della decolonizzazione, introducendone i caratteri e le problematiche e cercandone le tracce nel mondo attuale, indagando fenomeni, ragioni e problemi. Alle spiegazioni della Prima guerra mondiale sto affiancando poi, in italiano, la lettura di testi di Ungaretti, Rebora, Jahier e altri scrittori, brani che insieme a Joyeux Noël e alcuni filmati d’epoca stanno aiutando i miei alunni ad entrare nell’argomento, percependolo, sentendolo, vedendolo con gli occhi di chi lo ha vissuto.
Bastano questi tre esempi a fornire l’idea di un percorso sicuramente difficile nella sua progettazione e nel suo svolgimento ma che si rivela al tempo stesso entusiasmante, fonte di coinvolgimento di alunni e docenti nello studio della storia, il cui valore per la formazione della persona è inestimabile. Vedo continuamente sorgere nei miei alunni domande, segno che non si può non ricondurre alla comprensione e alla rielaborazione personale degli argomenti trattati.
In un percorso del genere, se si affronta la storia così, è grande la responsabilità dell’insegnante: ciò che deve possedere è innanzitutto una solida e chiara visione di sintesi, che gli permette di compiere scelte ardite su cosa affrontare. Non è detto, infatti, che tutto ciò che è presente sui manuali si debba spiegare, dato (oltretutto) che nella scuola media i programmi ministeriali non esistono più. È scelta ardita, lo so, ma il coraggio di operare dei tagli è una competenza matura dell’insegnante, troppo spesso ancorato a una visione enciclopedica e didascalica del sapere.
È grande, in un percorso del genere, la responsabilità dell’insegnante, che si trova a guidare gli alunni attraverso i salti nel tempo (dal presente al passato e viceversa, dalla loro esperienza a quelli di altri uomini prima di loro), avendo cura di ricostruire con loro e in loro la linea diacronica della storia, facendo continuamente riferimento a date, periodi, fatti e avvenimenti accaduti in parallelo a ciò che si sta in quel momento osservando. Si costruisce così, implicitamente, uno sguardo critico e consapevole anche sull’attualità, da cui pure è lecito e interessante partire.
La storia ritorna, in questo modo, narrativa, ricostruita dalla voce dell’insegnante; ritorna così in qualche modo vicina alle categorie di apprendimento dei ragazzi, condotti via via nel passaggio dal concreto all’astratto che si compie come crescita in loro nel periodo della secondaria di primo grado.
Nell’incipit della sua Breve storia del mondo Gombrich (che di arte figurativa se ne intendeva), dice che “tutte le storie cominciano con C’era una volta” e su questo assunto fonda la sua narrazione, piena di immagini familiari e concrete, vicine all’esperienza dei ragazzi cui il libro è dedicato. Basta sfogliarne qualche pagina per rendersi conto del valore didattico di quel suo libro. L’insegnante dunque racconta, e in questo racconto – come su un grande Kamishibai moderno e attuale – può usare tutti gli strumenti che vuole per far figurare e rendere plastico quello che dice: immagini, quadri, cartine, filmati, mappe, disegni. Oggetti persino: dal berretto d’alpino del nonno di uno studente al modellino in scala del Fokker Dr.I del Barone Rosso, portato a scuola da un altro alunno dopo averlo costruito di sera col padre in cantina, colpito dal fatto che gli avessi portato la storia a fumetti di Von Richthofen ritrovata su una vecchia edizione de Il Giornalino.
Se l’insegnante racconta e conduce la strada, il libro di testo diventa un supporto, riprendendo davvero la sua essenziale natura: strumento che aiuta a sistematizzare le conoscenze, non àncora di salvezza di studenti distratti o surrogato tascabile del docente di storia, che rende inutili le lezioni. In un percorso del genere agli alunni è chiesto di esser presenti, imparando a prendere appunti, a fissare, a seguire il percorso, a fermarsi se serve con l’insegnante e ripartire con lui. Al centro insomma vi è la lezione, momento prezioso e pieno di vita che nessun manuale sarà in grado mai di sostituire, luogo principe dell’apprendimento, dove avviene l’incontro tra il docente e il discente nell’oggetto specifico della disciplina, che assume spessore nell’atto dialogico che insostituibilmente succede.
“Prof, ma quale materia stiamo facendo?” ogni tanto qualcuno domanda. “Non lo so”, rispondo io sorridendo, ma perché non c’è soddisfazione più grande che vedere sfondati i confini dentro cui le materie si sentono strette.
E non c’è soddisfazione più grande che sentire, dall’ultimo banco (come ha provato ad accadermi) rompere il silenzio imbarazzato il giorno dopo la consegna delle pagelle quando ho chiesto cosa pensassero, al di là dei voti, della prima parte dell’anno trascorsa insieme. “Lo so, è stato difficile”, ho detto, vedendo che nessuno mi rispondeva, “ma bello!” ha aggiunto d’impeto un ragazzo, donando anche a me la parola più esatta per descrivere ciò che anch’io avevo vissuto con loro.
La storia, alle medie, ha anche questo come obiettivo: allargare orizzonti e accendere il gusto dell’imparare, dell’indagare cercando il senso profondo delle cose.