In un bell’articolo, pubblicato sul Corriere della Sera del 15 dicembre, Sabino Cassese si interroga con la consueta lucidità sull’imminente, ennesima, “infornata” di docenti: una quota significativa dei quali proverranno dalle fila sterminate dei supplenti, alla modica condizione che abbiano prestato tre anni di servizio negli ultimi dieci. Partendo dalla notizia, Cassese propone una serie di questioni, sotto forma di interrogativi retorici, sulle scelte governative in materia di scuola: domande di buon senso, se non fosse che sono state poste ormai inutilmente troppe volte. Da qui, senza dubbio, anche il tono sottilmente amaro della riflessione.
Sarebbe ingeneroso far carico unicamente al ministro Valditara, o anche al governo di cui fa parte, delle molte incoerenze presenti nelle decisioni che hanno sottoscritto. In buona parte, stanno semplicemente onorando impegni ereditati dal passato e lo stesso si potrebbe senza dubbio dire, andando a ritroso, di molte delle analoghe decisioni assunte da altri in precedenza. Non è facile per nessuno resistere alla pressione di almeno 200mila persone, in fila da anni per una “sistemazione”: perché di questo si tratta e non di far fronte ai problemi della scuola, che – benché noti e molte volte diagnosticati – finiscono con il passare sempre in secondo piano.
Una fila, fra l’altro, che non si esaurisce mai, perché non cambiano a monte i meccanismi che la alimentano: e cioè la normativa sulle supplenze e l’infernale meccanismo dei punteggi, che impongono una logica meramente accumulativa e quantitativa, anziché quella di selezione e qualitativa che dovrebbe guidare l’ingresso nella professione insegnante. Se questa fosse una professione e non un semplice posto di lavoro, come dimostra anche il livello più che modesto delle retribuzioni. Eppure, sognare non è vietato. Non sarebbe impossibile, con le stesse variabili in campo, immaginare modalità e utilizzi diversi per la gestione di questa risorsa. Proviamo a fare qualche ipotesi.
Il sostegno
La prima, e più diretta: quella economica. Una delle principali contraddizioni attuali è quella che vede crescere il numero degli insegnanti mentre scende rapidamente quello degli studenti. E questo partendo da una situazione che vede in Italia un rapporto medio alunni/docente di circa 10:1, mentre la media OCSE si colloca intorno a 15:1. Applicando tali dati a una popolazione (solo scuole statali) di circa 7,2 milioni di alunni, il differenziale è di 240mila unità in più, un terzo del totale. La risposta è nota: noi abbiamo un modello “inclusivo” per la gestione dell’handicap. E infatti gli insegnanti di sostegno sono circa 200mila (in costante aumento): assorbono, cioè, quasi la totalità di quel differenziale. Ma attenzione: gli alunni disabili sono il 4,25% del totale, mentre gli insegnanti di sostegno sono il 29%: un dato che è spia di una seria disfunzione di sistema.
In aggiunta, quella risposta non risolve il problema: anzi finisce con il diventare parte di esso. È inevitabile, con questi numeri, chiedersi quale sia il valore aggiunto della scelta italiana. Esiste una qualche ricerca, seria e fondata su dati, in grado di dimostrare che il livello di successo formativo degli alunni disabili sia sensibilmente diverso e migliore da noi che nel resto del mondo? Temo di no: anzi sembrerebbe vero il contrario, per esempio secondo quanto documentato in uno studio di qualche anno fa (Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte, TreeLLLe, Fondazione Agnelli e Caritas, 2011). Il disabile è spesso incluso solo a parole: nei fatti viene delegato al docente di sostegno. E un terzo di questi ultimi è privo di specializzazione e viene attinto dalle graduatorie generali degli insegnanti disciplinari.
Se si volesse operare una mediazione, cioè rivedere i criteri per la gestione del sostegno, limitandolo ai casi in cui può essere realmente utile, si potrebbe recuperare almeno la metà di quel differenziale. Quanto ai casi gravi, l’esperienza di molti altri Paesi dimostra che traggono maggior giovamento dal seguire percorsi dedicati, dai quali escono almeno con le competenze necessarie a svolgere una qualche forma di lavoro. Nei limiti, ovviamente, del possibile: ma si tratta di alunni che di fatto oggi vegetano, anche se spiace dirlo, immersi in un mondo che non seguono e non comprendono e dal quale non trarranno beneficio sostanziale per la loro vita futura.
120mila docenti in meno equivalgono ad un costo di circa 5 miliardi di euro lordo per lo Stato: una somma non trascurabile, che verrebbe liberata per investimenti nella scuola o in altri settori. Il tutto senza licenziare nessuno: semplicemente non assumendo altri per 10 anni. E con questa misura, così impopolare, ma così ragionevole, avremmo solo dimezzato il differenziale (e quindi i maggiori costi) rispetto alla media OCSE.
Gli stipendi
La seconda: un intervento sugli stipendi. Partendo dagli stessi numeri, si potrebbero utilizzare le economie realizzate per migliorare in modo sostanziale le retribuzioni attuali. Anche a voler destinare a questo fine solo la metà delle economie sopra indicate, si avrebbe un miglioramento medio di 4mila euro pro-capite. E questo solo nella logica della distribuzione “a pioggia”. Ma potrebbero essere molti di più, se si utilizzasse questa disponibilità aggiuntiva per incentivare la disponibilità dei docenti a farsi valutare: i premi andrebbero solo a coloro che accettano e che dimostrano in quella sede di fare significativamente meglio del minimo sindacale. Il che, fra l’altro, innescherebbe un effetto emulativo: di cui la nostra scuola, da troppo tempo sfiduciata e appiattita, avrebbe grande bisogno. Quanti, fra gli attuali insegnanti, potrebbero fare meglio e di più “se ne valesse la pena”? che non significa solo soldi in più, ma la prospettiva di vedere pubblicamente riconosciuto e apprezzato il proprio valore? di non dover progredire lentamente e solo per canizie?
Tutto quanto sopra ipotizzato assumerebbe dimensioni anche maggiori se si volessero destinare a questo fine tutte le economie, anziché solo la metà. Ma a chi scrive sembrerebbe più utile, in una tale prospettiva, investire l’altro 50 per cento in interventi strutturali sugli edifici e le dotazioni delle scuole. A costo zero per la finanza pubblica. E senza dimenticare che questo avverrebbe lasciando comunque dentro il sistema la metà degli insegnanti in più rispetto alle medie OCSE.
Le assunzioni
La terza: cambiare i meccanismi di assunzione. Gli attuali meccanismi concorsuali hanno dimostrato molte volte nel tempo i propri limiti: il principale dei quali è la loro rigidità. Assumere ogni volta decine di migliaia di docenti significa dover adottare come criterio di filtro un’astrazione: quella dell’ideal-tipo di alunno nazionale. Fissare, cioè, i requisiti su una soglia astratta, buona in teoria per tutte le situazioni, in qualunque territorio e per qualunque tipo di utenza. Una soglia che, in concreto, ha molte volte dimostrato di non essere in pratica buona per nessuno. Per non tener conto della sua inattuabilità sui grandi numeri e sulla molteplicità delle commissioni.
Ma vi è un altro limite ben noto: i grandi numeri creano massa critica. Quando decine di migliaia di aspiranti contendono per qualche migliaio di posti, solo qualcuno può essere soddisfatto: e tutti gli altri si ritengono defraudati. Da cui la sequenza perversa dei ricorsi al TAR, con strascichi infiniti e alla fine sanatorie multiple: con le conseguenze accessorie dei tempi lunghi, della sfiducia nel sistema e della convinzione diffusa che in cattedra non vadano i migliori, ma solo i più raccomandati (presso la commissione) o quelli che hanno scelto l’avvocato più bravo (davanti ai TAR).
Peggio ancora per quella quota di assunzioni – teoricamente, la metà – che avviene senza esami, attraverso le graduatorie permanenti. Queste liste di attesa, sempre lunghissime, vengono alimentate dalle supplenze: anche quelle micro, di qualche settimana. Granello dopo granello, i punti crescono, sempre senza alcun riguardo alla qualità del lavoro prestato, ma solo alla sua quantità. Finché, dopo dieci anni o anche più, arriva il sospirato momento in cui dalla cima della graduatoria si viene travasati nel ruolo. Inevitabilmente, portando con sé il peso dell’attesa e delle frustrazioni personali e sociali: e con la tentazione di considerarsi titolari anche di una sorta di diritto al risarcimento, sotto forma di disimpegno. Oltre che del risentimento radicato verso il datore di lavoro e verso le indicazioni che da quella parte vengono per indirizzare il lavoro. Per non parlare di un’altra conseguenza, altrettanto grave a livello personale e collettivo: non essendo mai stati valutati, ma solo contati, tutti gli insegnanti provenienti dalle graduatorie sono oggetto di un pregiudizio sociale collettivo, come se tutti fossero dei beneficiati, immeritevoli del posto che ricoprono. Il che, in molti casi, magari non è vero: ma come dimostrare il contrario? E come sostenere il diritto ad una retribuzione più degna se, né prima né dopo l’assunzione, nessuno ha mai dovuto o potuto dimostrare il proprio valore?
La soluzione
Il rimedio ci sarebbe e non lo abbiamo inventato noi: affidare alle scuole autonome il potere di scegliere i propri insegnanti, naturalmente fra gli abilitati e nei limiti dell’organico autorizzato. Lo fanno in tutto il mondo, e con risultati non peggiori dei nostri e anzi, in molti casi, migliori. Perché la singola scuola ha due vantaggi nella selezione del proprio personale: lo può scegliere in base ai bisogni della propria utenza e può farlo su piccoli numeri, sui quali la comparazione ha un senso.
Non si tratta di esaminarli sulle conoscenze possedute, che si devono dare per acquisite con il conseguimento dell’abilitazione: ma di vagliare il loro curricolo, di svolgere un colloquio sulle motivazioni e le scelte metodologiche, per poi metterli alla prova – per un anno, ma anche più di uno – sui propri alunni. Con la possibilità di consolidarne al termine l’assunzione, ma anche di risolvere il rapporto, se insoddisfacente. Pensare che una commissione di docenti interni non sia in grado di valutare intuitu personae coloro che considerano più idonei per diventare i loro colleghi è fare un grave torto alla loro capacità professionale: la stessa cui poi vengono affidati senza tanti scrupoli o problemi i loro alunni. E poi la scuola, a differenza di una commissione remota, ha tutto l’interesse a scegliere i migliori: perché poi ce li ha in casa e ci deve lavorare. Quante persone che oggi falliscono in cattedra, per incapacità o conflittualità relazionale, non supererebbero un vaglio dei loro pari, basato su un colloquio? E tutti avrebbero da guadagnarci. Salvo coloro che in cattedra non sarebbero mai dovuti andare: e che oggi invece, troppo spesso, ci vanno.
Un tale intervento sulle assunzioni avrebbe un altro vantaggio: permetterebbe di fare piazza pulita dell’infernale meccanismo dei punteggi per le supplenze, con il loro strascico occasionale di brogli, e con l’infinito aggravio di lavoro e di contenzioso che porta con sé. Non conterebbe più quante supplenze tu abbia fatto, ma quello che sai fare e come ti sai calare in un contesto dato.
Ma il vantaggio maggiore sarebbe forse quello sulla continuità didattica: il rapporto di assunzione costituito con la singola scuola eliminerebbe il balletto annuale dei trasferimenti e delle utilizzazioni, con i conseguenti benefici anche sulla puntualità nell’avvio delle lezioni e sulla stabilità degli assunti. Non porterebbe, da solo, economie di scala, se non sui costi dei concorsi e del contenzioso che li accompagna. Ma niente impedisce che una tale misura venga abbinata ad una delle altre due che sono state illustrate in precedenza. Sognare per sognare …
Certo, se la priorità è quella di sempre – quieta non movere – cioè, evitare di urtare interessi forti e organizzati, nessuno di questi interventi è possibile. Soprattutto se quegli interessi possono sempre trovare forze politiche e sindacali interessate a sostenerli in cambio di un ritorno elettorale: evento di cui abbiamo avuto significativi esempi. Ma, se di fronte ad un’emergenza collettiva, si rinuncia a considerarsi tutti coinvolti, si è perso in partenza. Eppure, ci sono stati, nel recente passato, casi in cui il Paese ha dato prova di saper fronteggiare un pericolo percepito come immanente: senza dividersi, anche su misure impopolari. Salvo riprendere le vecchie abitudini, all’indomani della fine della crisi.
Sognare, quindi, non è sempre e del tutto inutile. Ad una condizione, fondamentale: che vi sia un gentlemen agreement fra tutte le principali forze politiche in campo per togliere la questione scuola dall’elenco di quelle contendibili, cioè su cui si accetti di giocarsi al ribasso il consenso. Un accordo per avviare un piano di interventi almeno decennale su cui tutti si impegnino a non derogare, rinunciando a tentare di riscuotere il dividendo elettorale del precariato. Una condizione probabilmente irrealistica da ottenere: eppure, l’esempio di tutti i Paesi che hanno avuto successo nel risanare il proprio sistema di istruzione dimostra che è necessario un accordo sulle scelte fondamentali, che garantisca continuità per un tempo compreso fra i dieci ed i venti anni, ovvero il respiro di una intera generazione di nuovi docenti. Nuovi non solo come docenti, ma come persone, ivi compresa la percezione del ruolo e l’assunzione consapevole di una missione sociale. Ma di questo, che attiene ad una diversa filosofia della formazione iniziale dei futuri insegnanti, vi sarà tempo di discutere in un’altra occasione.
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