Cosa c’entra la mail della mamma di Marco alle 8.03 della domenica mattina con l’esame di terza media, il nuovo ministro, la vecchia minestra? Giuseppe, in questo lunedì di quaresima educativa e didattica, va avanti e indietro nei corridoi della scuola, entra in aula professori e si accaparra un pc disponibile. Devo scrivere alla signora – dice piuttosto determinato – per usare un eufemismo.
Dunque, riepilogando: la signora scrive che non comprende le sue (di Giuseppe) valutazioni. Ha letto ora il tema di suo figlio (suo della signora) e si è commossa. Nonostante questo Giuseppe ha osato mettere un 6. Non capisce, sempre la mamma, il motivo. E come possa (lui, Giuseppe) con questo voto spronare i ragazzi e premiarli per ottenere sempre il meglio. La mamma chiude promettendo che dirà a suo figlio Marco che è stato molto bravo e di continuare a metterci impegno e cuore come ha fatto in questo tema, perché così andrà tutto bene.
Voglio proprio vedere cosa le scrive, Giuseppe. Mi metto lì accanto a lui, picchia come un fabbro sui tasti e sciorina quanto segue: che continua a pensare che la scuola non possa diventare una specie di blog o di social qualsiasi in cui ciascuno si cimenta con i like alla domenica mattina, che per le comunicazioni occorrerebbe utilizzare i consueti e canonici canali.
Forse si ferma qui, al metodo, penso io. Ma no, cosa fa? Entra nel merito e spiega: che il giudizio di un insegnante avviene sempre al termine di un lavoro in cui si sono impostati alcuni passaggi che si ritengono fondamentali per l’acquisizione di competenze e abilità; che nello specifico, da alcuni mesi (e continuando il lavoro dello scorso anno) con i suoi alunni sta lavorando per la strutturazione di un testo autobiografico che sia in grado di essere coerente, chiaro e personale, soprattutto curando l’attenzione al particolare, evitando astrazioni, facendo sempre in modo che dai fatti, dalle cose prendano corpo riflessioni e pensieri. Continua scrivendo che i ragazzi hanno seguito correzioni puntuali alla Lim dei loro testi e dei testi dei compagni, prendendosi così cura, attraverso le parole, di se stessi e degli altri. Il tema assegnato doveva verificare tutto questo.
Si fermerà qui, penso io. No. Giuseppe prosegue: dice che nel giudizio (suo, di Giuseppe) ha sottolineato come nel tema (di Marco, del figlio, dell’alunno, insomma) ci fosse un buon inizio, in linea con quanto fatto, ma poi si fosse perso in una modalità che non era quella che lui stesso (sempre Marco) aveva compreso di dovere adottare. A fronte di questo, Giuseppe dice ancora di avere ritenuto il lavoro non completamente adeguato, e, pur riconoscendo qualcosa di positivo, il voto indicava che c’era ancora molto lavoro da fare.
Giuseppe, fermati, hai detto tutto. Ma lui non demorde. Scrive in preda ormai a un raptus buono e conciliatore e, scegliendo una metafora ciclistica che tanto piace (all’alunno, al figlio, a Marco che lui dunque conosce bene) conclude dicendo che insomma in quel voto si diceva di una buona partenza, ma che certo non poteva dirgli che aveva vinto il giro d’Italia.
Chiudi Giuseppe, avanti. Ma lui no, sottolinea: che questo è il mestiere che deve fare un insegnante, riconoscere, incentivare, realisticamente indicare ciò che manca. Lo dice anche Mazzeo, che spesso ha ragione. Continua dicendo che Marco aveva tra le mani un’esperienza, assolutamente dolorosa, e però preziosa da raccontare, e che quello che voleva da lui era esattamente che ne potesse parlare come l’argomento meritava e come aveva cominciato a fare.
Basta, dai, Giuseppe, mi sembra chiaro e completo. No. Il vecchio prof perde forse la sua vena conciliante e chiude invitando la signora a continuare a spronare suo figlio, come dice nella sua mail, perché ci metta cuore e impegno. Ma anche a suggerire al figliolo di seguire le indicazioni dell’insegnante perché questo impegno diventi davvero proficuo. Infine si lascia scappare anche un “certo non lo aiuta nella sua (del figliolo) crescita sentire un genitore che, senza avere elementi per giudicare, metta in discussione un lavoro che è fatto con piena consapevolezza di ciò che l’alunno è in grado di dare”.
Ha ragione Mazzeo quando dice che il voto non serve? Già – dice Giuseppe cliccando la finestra con su scritto invia – ma nemmeno i giudizi servono, pare. Rimane la domanda: cosa c’entra la mail della mamma di Marco con ecc. ecc.? Ma come, sbofonchia Giuseppe, non hanno appena confermato che l’ordinanza prevede un esame di terza media come quello dello scorso anno? Non hanno appena precisato che si potrà anche dare la lode? Per una bella tesina sui pappagalli venezuelani?
Colleghi, grida ormai Giuseppe sul suono della campanella, questa qui è la stessa minestra. Che la mamma e il ministro hanno riscaldato nel pentolino preparato dal precedente ministro, dai precedenti esperti o sindacalisti che fossero. Perché dovremmo fare lezione più a lungo? Perché mai dovremmo fare un esame mutilato quest’anno? Abbiamo quasi sempre fatto scuola in presenza, abbiamo giurato e spergiurato che in Dad sono successi miracoli, ai ragazzi abbiamo detto che era tutto vero! E adesso diciamo invece che era tutto uno scherzo? Che l’esame è un giochino da fare al computer o una tela cubista su cui disquisire?
Non lo sento più Giuseppe: lui si avvia verso il piano di sopra, dove lo aspetta nel banco quel Marcel Proust del Marco in questione. Io vado verso la mia di classe: chissà quanti Leopardi o Manzoni stanno seduti tra i banchi!
Forse ha ragione Giuseppe, o forse ha ragione il ministro: un esame così ci farà capire finalmente chi abbiamo davanti. O forse, caro ministro, bisognerebbe parlarne ancora e più a lungo. Intanto Giuseppe ha già preso possesso del pc della classe e sta per anticipare il futuro: mi sbaglio, o dalla sua Lim spara fuori l’inno dell’Inter? Oggi, dopo la festa ai cugini, ci sta. E magari può essere un bell’argomento d’esame. La mamma ringrazierà per la lode, gli esperti tireranno un sospiro di sollievo, i ragazzi continueranno a non sapere chi sono. Speriamo almeno che l’Inter vinca lo scudetto. Con tanti saluti a Ibrahimovic.