Premesso che una scelta si compie e una decisione si prende (oggi sento sempre più spesso con raccapriccio la collocazione errata prendere una scelta), questo è il periodo delle scelte: la scuola superiore, la facoltà universitaria.
Di fronte a figli di amici che si avviano a immaginare il loro futuro, mi torna in mente il percorso di certi cari ragazzi. Una ha scoperto la sua vocazione facendo la volontaria al pre-Meeting di Rimini, e l’altro ha deciso di cambiare direzione facendo l’ufficio stampa ancora al Meeting. Non che il Meeting sia di per sé un ufficio orientamento, ma è una palestra di “io in azione”. Non si scopre la propria strada pensandosi, ma mettendosi all’opera: mentre fai dei cartelloni ti vengono delle idee, guardi il responsabile di quel settore, e qualcosa scatta in te. Mentre intervisti i relatori entri in contatto con una persona affascinante che ti apre dei mondi. Scegliere richiede di essere presenti a sé stessi qui e ora, mente e corpo, di sapersi confrontare con degli obiettivi attraverso un rapporto fecondo con la realtà.
C’entra in qualche modo anche con il modo in cui si è studiato prima. Chi ha studiato a memoria per obliarsi, assentarsi, ha un problema di immagine di sé, di cattivo rapporto con sé, ha messo il pilota automatico per non mettersi alla prova. Molti studenti leggiucchiano, sottolineano, ripetono ad alta voce senza saper dialogare con sé stessi. Meglio invece ripetere ad un altro, ripassare fra compagni per imparare a spiegare le cose con parole adeguate, chiarificare a sé stessi, verbalizzare il pensiero. Verrà utile, quando si devono compiere delle scelte, saper dire a sé stessi il perché e il percome.
La difficoltà è che non sempre si sa a sufficienza di sé stessi, perché il giudizio è stato dato per lo più dal di fuori. Invece scegliere è confronto con sé stessi e può riservare sorprese: non credevi di avere una certa dote. Ti vedevi con l’occhio del genitore o della cultura in cui sei immerso e non con quello delle tue speranze reali. Ricordo una cara ragazza che pensava di dover essere teutonica come i suoi genitori, e non riconosceva in sé stessa un’anima creativa che le veniva da chissà dove (passò da fisica a design nel giro di una notte): crescere è anche accettare di essere diversi da come ci si pensava.
Richiede anche realismo: l’autostima è diversa da vanagloria e velleità, da ricerca di approvazione, da proiezioni di sé. Crescere è un po’ rimettersi al mondo con le proprie forze, legittimarsi: è questa la difficoltà. Può capitare anche che piaccia qualcosa che in realtà supera le proprie attitudini – non si hanno le capacità, i mezzi, la costanza per intraprendere e sostenere certe scelte elevate – e che costi ammettere di non avere tali attitudini o che le circostanze portino altrove. Ricordo un caro ragazzo che lasciò gli studi universitari per rilevare l’impresa del padre ammalato, e lì scoprì una vocazione… L’immagine di sé che ci si è fatti non darà la pace, che invece proviene dall’ambito in cui realmente si potrà contribuire nel proprio piccolo alla comunità umana (un bravo “operatore ecologico” vale spesso di più di un cattivo dentista!).
Un punto dolente è l’idea di lavoro che si ha: per alcuni è una questione di look (si scelgono lavori di prestigio o che si pensa siano remunerativi), per altri il lavoro è comunque una noia e uno scotto da pagare al diventare adulti: invece il lavoro è il contributo che ogni persona dà al mondo, per questo c’entra con quello che si è.
Bisogna anche aver chiara l’idea di qualità della vita dopo gli studi, e soprattutto del lavoro che si prospetta: certi lavori comportano ore in laboratorio (le scienze per esempio), oppure richiedono necessariamente di stare in mezzo alla gente (l’umanista per es. è un comunicatore nato): ci si sente fatti per questa vita? L’illusione è che decidere coincida con il “mi piace” (I like): errore.
Un rischio è quello della scelta nominale: non sapere cosa c’è veramente dietro ad una facoltà e a un lavoro. Per esempio, dietro veterinaria non ci sono dei graziosi gattini, ma l’ufficio d’igiene, il mercato delle carni, la produzione del latte, le biotecnologie, eccetera. Se non si tiene conto di queste cose si passa dall’entusiasmo del bel nome alla delusione e si crolla nel giro del primo anno. Ricordo una cara ragazza che dopo aver scelto architettura fu scandalizzata da una lezione in cui si parlava dei vari tipi di matita; e un altro che voleva fare l’avvocato ma aveva avversione per il diritto… Compiere una scelta universitaria per sentito dire non è mai produttivo. Invece alimentare l’interesse resiste ai colpi della realtà. Se si sceglie un campo nuovo di cui non si ha esperienza scolastica, è necessario non farsi trascinare solo da curiosità momentanea, fascinazione o esaltazione, bensì alimentare l’interesse, raffigurarsi situazioni future, accettare di saperne di più, sentirsi coinvolti, scoprire infine di essere realmente interessati.
Insomma la grande risorsa è come sempre la realtà: mettersi in moto, accettare di essere quello che si è, conoscere realmente i vari campi, magari cercando incontri significativi con adulti “in azione”.
Come questo impatta con il docente orientatore di recente introduzione? Senza addentrarmi in un campo certamente interessante, immagino che potrà funzionare se l’adulto di riferimento saprà aiutare il ragazzo a stare davanti alla realtà, sua ed esterna, e offrirgli occasioni per mettersi alla prova, che nella scuola fortunatamente già esistono.
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