Mentre ero alle prese con le ultime lezioni della Dad e gli adempimenti di fine anno, il primo giugno è occorso il cinquantenario della morte di Giuseppe Ungaretti. Stavo finendo di correggere gli ultimi compiti, in cui chiedevo tra le altre cose di riflettere sul proprio percorso triennale. In alcuni ho trovato il suo nome: era uno degli ultimi argomenti che avevo affrontato in classe prima della sospensione delle attività didattiche in presenza, in un tempo che adesso – mentre ascolto contenta le presentazioni degli elaborati dei miei alunni – mi sembra lontano e vicino allo stesso tempo.
È, l’Ungaretti dell’Allegria di naufragi, un poeta di cui ho sentito parlare tanto anche negli anni scorsi, durante gli esami; un poeta che i ragazzi ascoltano e di cui parlano volentieri.
Oltre che nelle ore di italiano (dove ci può essere lo spazio per proporre anche i testi più tardi e non conosciuti), lo propongo quando in storia affronto la Prima guerra mondiale. Leggere le sue poesie aiuta a immedesimarsi in un periodo storico che può apparire lontano, è insieme un invito a immergersi in un’esperienza umana e un’occasione unica di confronto (come sempre accade con la poesia) con parole profonde che aiutano ad addentrarsi in sé e nel reale.
Perché Ungaretti è un poeta così amato? Perché (mi sono chiesta con ancor più intensità in questi giorni) non c’è anno in cui qualche ragazzo o ragazza di Terza non mi restituisca qualche sua poesia, nel momento in cui conclude la scuola media e presenta qualcosa di suo, che lo ha colpito e affascinato?
Non credo basti, a rispondere a questa domanda, soltanto il fatto di averlo incontrato insieme in classe, né che parlare delle poesie scritte in trincea consente agli alunni “facili” collegamenti tra le materie.
C’è un segreto, io credo, dentro i suoi testi, ed è il fatto che Ungaretti “scrive con il cuore, dando importanza alle parole” (lo ha scritto una mia alunna in una “lettera dal fronte” che ho chiesto di produrre all’inizio di marzo).
In tutti i miei anni di insegnamento ho scorto, nel fascino che questo poeta suscita, tanti motivi per cui i ragazzi entrano volentieri in dialogo con lui. E ciò che è racchiuso nell’affermazione della mia alunna è anche la ragione per cui tutti gli anni riprendo in mano le sue poesie e le riscopro io stessa, proponendole alle mie classi.
Il primo è sicuramente la potenza della parola: le parole infatti in Ungaretti acquistano rilevanza, importano, hanno peso. È come se riprendessero il loro posto, se tornassero ad essere segni che aiutano a orientarsi nella scoperta di sé, nel mondo, nel guardarsi dentro, nell’esprimersi. Nelle sue poesie le parole sono sempre essenziali, calibrate, precise; accostate con un’attenzione delicata ed efficace. “Un’intera nottata / buttato vicino / ad un compagno / massacrato”: basterebbero i participi di questi versi (e di quelli successivi, presenti nella poesia Veglia da cui sono tratti) a mostrare l’intensità della scrittura di Ungaretti.
Anni fa un mio alunno commentò che con un solo termine (“buttato”) il poeta riesce a far comprendere stati d’animo e sensazioni e a comprendere, più che con mille film, la sua esperienza di guerra. Si è messi di fronte, con Ungaretti, a una dimensione inedita della parola (spesso così lontana da quanto accade nel mondo di oggi), eppure apprezzata e tanto desiderata anche dai giovani che mi trovo davanti.
Un altro alunno mi disse che era come se Ungaretti fosse contemporaneamente scrittore e pittore: con le sue brevi poesie racconta fatti e stati d’animo; spiegava, questo mio alunno, che era come se Ungaretti scrivesse, in ogni suo testo, un diario; ma – continuava quello studente che ormai ha finito l’università – allo stesso tempo riesce anche a dipingere le scene e attraverso particolari e colori, muovendo il lettore a visualizzare ciò che descrive.
Il secondo motivo per cui io penso Ungaretti sia molto amato è la sua esperienza di nomade, di viandante, di emigrante, di pellegrino. Nella seconda strofa della poesia Italia (“sono un frutto / d’innumerevoli contrasti d’innesti”) discretamente emerge la costante ricerca della sua identità. Cresciuto ad Alessandria d’Egitto, passato dalla Francia per poi rivestire l’uniforme italiana in guerra, ho potuto constatare in questi anni che Ungaretti riassume e abbraccia (ora, nel punto in cui siamo) la vita e le esperienze di tanti ragazzi che ho incontrato, provenienti dall’Italia, da altri luoghi del mondo o dalle stesse coste africane su cui lui è nato e cresciuto. Gli episodi e i paesaggi desertici della sua infanzia, l’incontro con l’Italia e le colline lucchesi, la Francia, l’esperienza della guerra gli hanno fatto incontrare culture diverse e multiformi tradizioni; tutto questo insieme ha fatto sì che in lui sedimentassero sentimenti ed esperienze che, sciolto (a differenza dell’amico Sceab) “il canto del suo abbandono”, ne hanno costituito indissolubili il tessuto e la storia.
C’è un’ultima, tra le altre, attuale ragione per cui penso Ungaretti sia amico, un nostro amico; ora, in questo giugno 2020, mentre ascolto telematicamente gli elaborati dei miei studenti e a cinquant’anni dalla sua morte, a oltre cent’anni dalla fine della Prima guerra mondiale: come un amico, Ungaretti offre al nostro cuore ferito e che grida il tema della precarietà umana e l’universalità della domanda che da esso sorge. Ci raggiunge da ogni pagina della sua opera, questa domanda, e Ungaretti per tutta la vita la esprime e la indaga, riscoprendola abbracciata in una creaturalità vertiginosa, ma amica.
Scriveva Leone Piccioni: “I suoi versi sono ricchi di impronte nuove e particolari: la sua metrica è nuova, secca, scarna; i versi sono frantumati, è infranta la tradizione accademica italiana. […] Usa subito parole popolari, parole che non invecchiano, parole di sempre. Sillaba vuoti e pieni, spazi e silenzi, scava antichi proverbi sulla condizione di lui uomo, e degli uomini: sul mondo ha modo di riflettere là dove ogni ora la morte porta via i compagni, e dà il senso più terribile della precarietà”.
È per questo, per le sue parole umane, trovate nel silenzio e scavate nella sua vita “come un abisso”, che Ungaretti parla ancora ai ragazzi di oggi; parla a me, agli uomini e alle donne e alle ragazze e ai ragazzi di oggi: a quelli che hanno visto e vissuto sulla propria pelle il dolore e la sofferenza e il sacrificio e la fatica e l’impegno che la condizione imprevista e imprevedibile della pandemia ha chiesto a tutti, a tutti proponendo con il suo irrompere un passo al di là, in una dimensione in cui la domanda di senso e il riconoscimento della propria precarietà sono necessari quanto vitali.