Come ha detto il filosofo Luigi Lombardi Vallauri, “nessuno sa veramente quello che pensa fino a quando non l’ha scritto su un pezzo di carta”. Scrivere è infatti di grande aiuto per rendere un pensiero più preciso, più ricco, più profondo. Come c’è un momento in cui un pittore, un fiorista, un arredatore possono dire “Ecco, ora è perfetto”, così chi scrive può a un certo punto concludere “Questo è quello che penso”, dopo avere scritto e riscritto una frase, consultato un dizionario dei sinonimi, cancellato qualcosa, aggiunto qualcos’altro.



A scuola i due principali tipi di testo per esercitarsi nello scrivere sono, com’è noto, il riassunto e il tema, che allenano differenti abilità cognitive, tutte importanti. Detto en passant, il tema fu oggetto di un vero e proprio anatema negli anni post-68, raccogliendo peraltro, alla luce dell’analisi di classe, l’eredità di illustri detrattori del passato. Qui basta ricordare che “tema” è sinonimo di “argomento”. L’insegnante chiede agli allievi di trattarlo attraverso un titolo che può essere breve, meglio se stimolante, oppure più lungo e strutturato in modo da servire come guida per lo svolgimento. Di fatto è un genere comprensivo di molti generi testuali, tra i quali uno dei più utili alla crescita intellettuale e morale, soprattutto nel primo ciclo, è il tema di esperienza e di riflessione personale.



Tutti pregi che molti evidentemente ignorano nel momento in cui sottovalutano il pericolo micidiale costituito dalle piattaforme come ChatGPT (Chat Generative Pre-trained Transformer, ovvero Trasformatore pre-istruito in grado di generare conversazioni), capace di scrivere testi su moltissimi argomenti. Che si sia già a un buon livello di perfezionamento, lo dimostra il fatto che Il Foglio ha potuto sfidare i lettori a individuare ogni giorno l’articolo scritto tramite l’Intelligenza Artificiale (a proposito: i giornalisti non sono preoccupati?).

C’è chi rassicura e sostiene che è un’occasione per migliorare l’insegnamento. Una docente inglese, per esempio, dice che gli studenti, invece di scrivere testi, potranno lavorare su quelli “artificiali” per individuarne manchevolezze e fare modifiche. C’è poi chi incappa nel benaltrismo, sostenendo che l’importante è sviluppare una piena umanità negli allievi, la loro curiosità, la capacità di fare domande. Tutte “soluzioni” che presuppongono in sostanza l’abbandono di una scrittura che non sia strettamente funzionale.



Del resto, di fronte alle nuove tecnologie, da decenni scatta in molti, come un riflesso condizionato, la raccomandazione di non “demonizzarle”, ma di imparare a utilizzarle per il meglio. Purtroppo l’esperienza ci dice che queste aperture di credito richiedono non solo l’indicazione di limiti chiari e di non troppo complessa applicazione, ma anche perseveranza e fermezza da parte degli educatori; altrimenti si apre un’autostrada per la moltiplicazione degli effetti indesiderati. Così è stato per il cellulare: abbiamo creato legioni di ragazzi dipendenti dagli smartphone, spesso affetti da seri disturbi di vario genere; e la possibilità di copiare utilizzando internet durante le verifiche e gli esami è aumentata in modo esponenziale.

Perciò dobbiamo prendere sul serio i pericoli che incombono sull’apprendimento dell’italiano scritto, in particolare quello di non poter più far esercitare i ragazzi con riassunti, temi, relazioni da fare a casa. Finora l’insegnante accorto ha potuto subodorare la copiatura perché sa come scrivono i suoi allievi e può controllare su internet se ha barato. Oggi ci dicono che con ChatGPT questo non si può fare (ma almeno la richiesta di creare la possibilità di conservare in rete per qualche tempo i testi prodotti andrebbe fatta). In ogni caso, questa volta vale la pena di passare per “demonizzatori”, visto che si rischia di danneggiare gravemente le nuove generazioni.

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