Ogni santa mattina imboccando il cancello della scuola penso ai “miei” ragazzi. Se si è compiuto il miracolo che i loro docenti provano a fare, tirarli fuori dai letti, strapparli al torpore di giornate tutte uguali. I nostri sdraiati, gli ipermediali studenti della Z Generation. “Come possono avere il cuore aperto anche nella fatica?”.
Che fossero preda di un’apatia per la vita, di una facilità a sprofondare nel vuoto, lo sapevamo già. Anche noi adulti ne facciamo esperienza, ogni giorno. E un anno di distanziamento ha solo portato in superficie questa dimensione dell’umano, diviso fra un desiderio di felicità
Per questo mi riempiono la mente tutte le mattine, e mi domando se i “discorsi” che la scuola sa fare, in una videolezione, ma anche in presenza, sono sufficienti a strapparli dal nulla. Certo che no, mi rispondo. Siamo tutti stanchi di parole. Su quello che avremmo potuto fare, sugli errori strategici e di prospettiva. E sui discorsi, per piacere, dovremmo metterci una pietra sopra. Al più presto.
Giovedì scorso ho assistito a un piccolo miracolo. Abbiamo pensato, per recuperare tempo scuola, una serie di iniziative in cui gli studenti possono incontrare testimoni significativi delle discipline caratterizzanti il loro percorso di studi. Gli insegnanti mettono gratuitamente a disposizione il loro tempo libero, i ragazzi liberamente partecipano, ascoltano e fanno domande. Una di queste iniziative l’abbiamo titolata “Patto per la danza”. Essa nasce dal desiderio di creare “nuove geometrie” di rapporti per costruire un patto che consenta ad adulti e ragazzi di coinvolgersi intorno al focolare della danza come Tersicore, la sua musa. Nella consapevolezza che “la formazione di un individuo, coinvolto nelle dinamiche e nelle formazioni sociali, capace di un pensiero critico, è preludio essenziale alla crescita del Paese sia sul piano economico sia su quello sociale”.
Il primo incontro è stato con Mario Piazza, docente nell’Accademia nazionale di danza di Roma e coreografo internazionale. Mi ha colpito il suo racconto di vita, da cui nasce tutta la sua arte: figlio di immigrati in Canada, suo papà era ebreo, sfuggito alla persecuzione. E lui, coreografo internazionale, ha incontrato la danza perché, un giorno, da ragazzino, durante un’ennesima noiosa seduta di fisioterapia per curare un problema fisico, un suo insegnante gli ha detto, sfidandolo: “Perché non provi con la danza?” E lui, per pagarsi la scuola, andava a lavorare ai banchi del mercato.
A una nostra ragazzina che gli ha chiesto “Maestro, secondo lei è più importante l’esperienza all’estero o in Italia” lui ha risposto: “Sabrina, è più importante l’esperienza”.
Mi piacerebbe raccontare molto altro, lo stupore dei ragazzi per un racconto di vita sofferto, come ciascuno di noi adesso, ma specialmente il richiamo alla pazienza del tempo, di ogni tempo, senza stancarsi di cercare la perla preziosa che il nostro cuore desidera. La pazienza è una virtù. Ci ha sorpreso e rilanciato sentirla raccontare. Come ci ha confortato che una circolare ministeriale, a firma di un Capo dipartimento, ci richiamasse a un’altra virtù: “Recuperando la virtù della prudenza, che non è lentezza, ma fare nel tempo dovuto. Donandosi quindi il tempo necessario per la riflessione critica e per l’elaborazione dei complessi e dolorosi momenti che viviamo”. E allora grido: forza ragazzi, il nostro cuore non si è perduto.
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