Venerdì scorso la faccetta di Greta Thunberg sprizzava soddisfazione. Centinaia di migliaia di ragazzi di tutto il mondo stanno forse spingendo davvero i governi a un impegno maggiore per ridurre le emissioni di gas serra. È un movimento che può anche servire a rincuorare una generazione che le vicende economiche hanno indebolito in molti casi nel naturale slancio verso il proprio futuro. Questo non ci esime, però, come facemmo la scorsa primavera per la prima ondata di manifestazioni, nel sottolineare di nuovo che c’è un serio problema se l’impegno politico-sociale svaluta di fatto la frequenza scolastica, già erosa da molteplici interferenze, oltre che dalla possibilità di stare assenti senza conseguenze cinquanta giorni l’anno.
La domanda è: c’è davvero qualche serio impedimento nel collocare le manifestazioni al di fuori dell’orario scolastico? Se disertare le lezioni poteva essere comprensibile in una fase di contestazione globale quale quella del ‘68, nel tempo è cresciuta (anche se sottaciuta) un’ovvia motivazione opportunistica: se ci mobilitiamo di mattina, viene anche chi di pomeriggio non lo farebbe.
Di fronte a questa malsana tradizione, sarebbe ovvio un forte richiamo dei ministri di turno alla necessità di un’assidua presenza a scuola, a valorizzare ogni singola ora di lezione. E al fatto che una cosa è un’eccezione, un’altra le ripetute assenze dalle lezioni.
Alla vigilia del primo “Venerdì per il futuro”, quello del 15 marzo di quest’anno, il ministro Bussetti si limitò a dire: “Si andrà a scuola regolarmente”. Un richiamo flebile e burocratico al valore della frequenza, ma ci fu. Il suo successore invece ha definito l’ultimo “Friday for Future” “la lezione più importante che possano frequentare”. La scuola e gli insegnanti ne escono ovviamente svalutati. Il ministro dell’Istruzione avrebbe fatto meglio a dire agli studenti che la scuola è il luogo dove le tematiche ambientali possono essere adeguatamente approfondite e non solo orecchiate dai media. Peraltro Fioramonti non è certo il primo che da viale Trastevere ha contribuito a indebolire l’autorevolezza dell’istruzione pubblica: basti ricordare Maria Chiara Carrozza, che incitò gli studenti a ribellarsi “ai genitori, ai prof, alla scuola”; gli elogi delle occupazioni e delle autogestioni di Davide Faraone; e – da un altro pulpito – quelli di Matteo Salvini.
Alla scuola, insomma, si dà importanza a parole, non nei fatti. Quante dichiarazioni programmatiche abbiamo sentito incentrate sul tempo scuola come migliore antidoto alla dispersione scolastica?
Forse una maggiore consapevolezza di quanto pagano per la scuola i contribuenti potrebbe farci fare un passo avanti. L’Associazione nazionale presidi tempo fa calcolò quanto costano le occupazioni studentesche. ”Uno studente – spiegava l’Anp – costa allo Stato circa 8mila euro l’anno. Una classe di 25 studenti ne costa mille al giorno. Il “fermo” di una scuola di 30 classi ne costa 30mila, sempre al giorno. In due giorni di sospensione delle lezioni – evidenzia – una scuola di medie dimensioni ha ‘bruciato’ l’equivalente di quanto riceve in un anno di finanziamenti”. Dunque, se anche solo 1000 scuole superiori su circa 12mila si fermano per una giornata, se ne vanno in fumo 30 milioni di euro. Pensiamoci.