In questa età della sragionevolezza in cui sembra di essersi irrevocabilmente infilati, ecco che ci si mette anche la politica a rincarare la dose di follia di questa estate: un ministro che sfiducia il suo governo, che sfiducia in fondo se stesso, perché pensa di potere fare molto di più di quanto non stia facendo. E succede quello a cui stiamo assistendo, la cui fine non mi è dato sapere mentre sto scrivendo.
Dunque di questo parliamo con Giuseppe sotto l’ombrellone: lui, perché io sono già a casa e lo ascolto al telefono. La scuola che fine fa in tutto questo? È un fiume in piena il mio amico: da un anno i gialloverdi hanno iniziato le manovre di disfacimento della precedente “Buona Scuola”, che peraltro non era mai stata realizzata come i rossorenziani avevano in programma; hanno tirato due o tre picconate che non sto qui neanche a ricordare e adesso hanno tirato giù la cler di tutto l’emporio di cianfrusaglie che loro chiamavano cambiamento con tanti saluti all’economia, ai tagli e alla distruzione programmata.
Giuseppe non mi dice neanche se è contento, anche se registro nella sua voce un velo di malcelata soddisfazione: lo sapeva che non si andava lontano con questi qui. Ma rimane la domanda: che fine fa la scuola? Ma come, mi dice, non hai sentito quello che si dice al Meeting? La scuola deve proseguire nella sua digital transformation, si trova nella società del codice dentro la quale deve imparare a gestire il passaggio dal feedback al “feed for word” come ha detto il prof Rivoltella qualche giorno fa. E che altro non significa se non sviluppare la capacità di immaginare in anticipo come le cose e le situazioni potrebbero risponderci.
Ride Giuseppe e mi dice che lui credeva che questa roba qua fosse appunto da qualche millennio il mestiere di pensare, di vivere e ragionare a cui ha sempre cercato di formare i suoi allievi. Non gli sembra una grande rivoluzione e gli viene in mente il titolo della raccolta di poesie di Mark Strand, “L’uomo che cammina un passo avanti al buio”: “non ogni uomo sa cosa canterà alla fine… cosa canterà quando la nave su cui si trova scivola nel buio”.
Insomma, bisogna stare anche davanti al mistero e fingersi un infinito, diceva un altro poeta: ma non c’era bisogno di scomodare la digital transformation per ricordarci questo. Tanto più che da qualche parte – forse sempre al Meeting, ma non è sicuro, tante sono le cose che ha visto e sentito in quel di Rimini – le industrie e le aziende più evolute già programmano corsi di digital detox, attività che funzionerebbero come quei tè con la curcuma e lo zenzero che ti danno nelle spa tra un bagno turco e una sauna finlandese: depurare l’organismo, in questo caso l’uomo tout court, da quelle scorie digitali che lo renderebbero meno capace di una serie di azioni e competenze di cui si ha bisogno come il pane. Così si spengono i pc, le reti, il wireless e ci si mette in cerchio intorno ad un’attrice e ci si scopre dotati di mani, occhi, sguardo, persino di lacrime e sorrisi.
Allora siamo sempre in un paese abitato dalla contraddizione? La scuola da buona rossorenziana a concreta gialloverde passerà ad essere confusa giallorossa? I professori capiranno mai cosa viene chiesto loro? Cinico non l’ho mai sentito Giuseppe, ma adesso sembra che lo stia diventando: amico mio, mi dice, la politica è come una mano di vernice su muri vecchi e consumati. Gialloverde, rossorenzi, giallorosso, persino verdeazzurro o verdeneroazzurro, per i professori non cambia nulla, per la scuola non cambia nulla. In questi giorni al traffico del controesodo verso il Nord si aggiungeranno come ogni anno auto di speranzosi colleghi da tutta Italia, a cui quest’anno si aggiungeranno ancora però altri presidi vincitori di concorso che arriveranno nelle loro scuole senza nemmeno sapere dove sono, dove abiteranno, se il nome del paese dove faranno i presidi si pronuncia con l’accento sulla i o sulla e.
Ancora quest’anno centinaia di insegnanti che non hanno mai avuto una soddisfazione da vivi, non ricevono alcuna soddisfazione nemmeno da morti, cioè da non più docenti ma pensionati. In quale paese del mondo un lavoratore che ha pagato i contributi, che ha onorevolmente concluso la sua carriera si sente dire dallo Stato: amico mio, la liquidazione non la prendi, non prima che siano passati due anni, almeno una prima parte. Poi dopo altri due anni ti daremo il resto. Non è un furto? Nessuno si scandalizza? Dove sono i sindacati?
Un mio amico, mi dice Giuseppe, ha lavorato come cameriere, pagato regolarmente, mentre faceva l’università e una volta pronto per andare in pensione, con tutti i requisiti di anni necessari, ha chiesto di poter tenere in conto anche quegli anni. Risultato: per cumulare, si dice così, bisognava spendere 30mila euro. Oppure anche gratis, ma la liquidazione non gli sarebbe stata data che un anno dopo il raggiungimento dell’età di vecchiaia pensionabile. Ci ho capito poco, ma quello lì oggi è uno dei professori che continua a stare nella scuola perché non ha 30mila euro da dare allo Stato per ottenere indietro i suoi soldi e perché non vuole aspettare di avere 69 anni per ottenere la sua liquidazione.
Nessuna considerazione per i docenti, vivi o morti che siano: si può tollerare ancora tutto questo? Ora non so quale potere abbiano i tè alla curcuma e allo zenzero, ma il preparato detox da dare a questo collega deve essere bello forte. E forse ha ragione Giuseppe: una qualsiasi mano di vernice, fosse anche rossonera, non basterebbe a tenere su ancora per molto i vecchi muri di questa scuola. Forse nemmeno Jeeg Robot d’acciaio potrebbe, con il suo nuovo urlo digital transformation! che risuonerebbe triste e solitario nello spazio.