L’esame di maturità non è il rigore di Baggio. “Roberto, stai calmo, pensaci bene, guarda meglio la porta, tira di nuovo, non ti preoccupare, bisogna tener conto di tutto il suo percorso…”. L’esame è l’irrealtà, ogni parola viene attutita dal polistirolo: come nel bonus facciate, ci mettiamo qualche centimetro di cappotto, in modo da non avvertire più né caldo né freddo. Anche nel voto finale c’è il bonus, e infatti anche il voto è facciata: già sostanzialmente deciso dalla notte dei tempi, deve far quadrare i crediti del triennio. Ovviamente ignora il “sottosuolo” dostoevskijano: dopo cinque anni, nessuno sa se questo ragazzo giochi a basket, se sia orfano o sia fidanzato, figuriamoci se vomita quel che mangia o quel che beve, se non riesce più a dormire o si è bruciato il cuore. Si spalancherebbero “interminati / spazi” ove “per poco / il cor non si spaura”, mentre qui ci sentiamo francescani se regaliamo 2 centesimi in più a un 83 predestinato.



I conti alla fine devono tornare: se allo scritto metti un certo voto, agli orali servirà un voto complementare; se allo scritto ha avuto due punti in meno, agli orali ne avrà due di più. È la legge della compensazione arbitrale di biscardiana memoria. Manca l’urto con il fatto irrimediabile, nessun rigore finisce alto una volta per sempre.



Ogni commissione poi è affetta da sbalzi d’umore: si presenta il brillantone e la classe somiglia a un giardino fiorito, noi siamo una squadra fortissimi, il sole bacia i belli, quant’è buono questo cornetto da quale pasticceria l’hai preso; quando in fondo al corridoio si profila lo studente che arranca, allora questa classe è un disastro, se rinasco mi faccio suora, lo Stato ci sfrutta per quattro soldi, domani grandina, il cornetto ti deve andare di traverso e devi morire male. Vasco continua a rimbombarmi nelle orecchie: “Voglio trovare un senso a questa commissione / anche se questa commissione un senso non ce l’ha”.



Sia chiaro, io non provo alcun risentimento personale contro l’asfalto: sono solo consapevole che, se ci pianto un seme, non germoglierà nulla. Bene, il format prevede che tutto quello che uno studente coraggioso può affermare s’infranga contro il grande silenzio. Ed è ancora peggio quando sollecita qualche sommaria considerazione a porte chiuse: anche le frecce incandescenti si spengono se precipitano nell’acqua cheta. Potrebbe mai capitare, alla fine dell’orale, un dialogo senza filtri a proposito di quanto abbiamo ascoltato da uno studente? Incontriamoci una sera per discutere dei contenuti e del metodo degli esami e rimettiamo in discussione tutto… Si scherza: è estate e se ne riparla a settembre, cioè mai.

Intanto qui Dio muore periodicamente, perché Nietzsche casca a fagiolo in diversi nodi concettuali. Lo si annuncia senza piangere: un’angoscia vera si cristallizza in presentazione schematica; purtroppo quello che la scuola tocca – alienazione, potere, identità – si contrae in discorsi esangui, che congelano una realtà passata anziché aprire gli occhi sul presente. Però “l’arte ha bisogno di uomini commossi, non di uomini riverenti”, avvertiva Concetto Marchesi. Solo quando qualcuno osa dire “io” anziché “l’uomo” (“Leopardi si chiede cosa resti dell’impero romano, così come… anch’io mi chiedo se qualcuno si ricorderà di me”: collegamento fra una materia e… non un’altra, ma se stessi), zampillano le lacrime. Puntualmente fraintese. “Prendi un po’ d’acqua, calmati, va tutto bene”. Si può piangere per l’ansia, per il voto e anche per l’emozione: mai per commozione. Anima è solo un concetto libresco. Con qualche alunno assisti al già saputo ben organizzato, con altri sei trascinato nel fremito della scoperta. Non puzzare di saputo, ma profumare di lacrime o di scoperta: si può inserire nell’ordinanza ministeriale?

Mi scappa sempre lo sguardo al di là della siepe, chiedo scusa. Dovrei aver contratto il tic professorale, ossia addomesticare l’“oltraggio” degli artisti: loro ti spingono in altomare, e subito si alza la paletta di controllo che li ricaccia sulla riva dei concetti manualistici. Quando cito il passaggio del compito in cui una ragazza si domanda se qualcuno si accorga delle lacrime di Nedda e chiosa in maniera lunare che “forse del mio dir poco ti cale”, nessuno sospetta che quella stoccata riguardi noi. Si sa, Manzoni parlava degli spagnoli del Seicento, mica degli austriaci dell’Ottocento. E Pavese scriveva: “ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?”.

Qualcuno all’orale ha svelato con discrezione “una pena invisibile”, ma ormai è tutto chiuso: dentro il pacco giacciono compiti, verbali, timbri, firme e griglie di valutazione, avvolti da nastro adesivo e sigillati dall’immancabile ceralacca. La verità va incarcerata, colpevole per essersi permessa di accadere.

Altro che rigore di Baggio. Questi ragazzi “hanno un cuore? A che serve? Qua non serve”, direbbe lo straevocato Pirandello. “Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano”. Anzi, serve il nodo concettuale. Si naviga sottovento, e tutto procede tranquillamente, senza litigi, senza insufficienze. E senza anima. Dell’Urlo di Munch non se ne può più, ma urli qui non se ne sono sentiti: al suo posto, il grande silenzio. Nessun volto né voto deformato, nessun espressionismo: al massimo l’espressino. Tutto è a posto, i contorni sono ben definiti, i 100 fioccano.

Peggio dei disumani silenzi ci sarebbe il cicaleccio, e allora quasi ringrazi se finisci in trappola sotto la ceralacca piuttosto che crepare tra i paragrafi e i collegamenti come capita a Munch, a Eliot, a Ungaretti, tra gli sguardi garbati di questa “waste land” scolastica.

Sarà successo pochi giorni fa o forse secoli, è un ricordo già sfocato. Una ragazza parlava dell’incomunicabilità. In effetti non è stata capita. Ha preso il massimo, ma non ha perforato il muro di gomma. Sosteneva che per Rimbaud “io è un altro”, ma che dev’essere andato in tilt il rapporto dell’io con l’altro e anche con sé; per testimoniarlo sfogliava Timore e tremore di Kierkegaard, di cui citava qualche frase, come dalle Lettere a Theo; poi raccontava cosa vince l’incomunicabilità mostrando I primi passi di van Gogh: un bambino si lancia verso il padre perché lui lo aspetta a braccia aperte; con la stessa tenerezza, Dio ha atteso il cuore di Agostino dentro ogni suo passo sbilenco.

“Vedi cara, è difficile spiegare, è difficile capire se non hai capito già”. È la sorte del tuo esame come di questo mio articolo: tu avrai il bonus e il bouquet; io tre like e quattro pernacchie. A chi importa del cielo intravisto in un’aula scolastica? di Nedda, di te, di me? “Così come una farfalla ti sei alzata per scappare / ma ricorda che a quel muro [o a quel nodo o a quel voto] ti avrei potuta inchiodare / se non fossi uscito fuori per provare anch’io a volare”.

(2 – fine)

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