In una recente intervista a Repubblica, il ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, ha affermato di aver ripristinato la traccia di storia nelle prove scritte di maturità. Attraverso l’introduzione di una clausola, una delle tre tracce incluse nella prova di tipo B, analisi e produzione di un testo argomentativo, sarà obbligatoriamente dedicata alla storia.



Si tratta di un risultato positivo, tanto più perché esso nasce da un sentimento diffuso di restituire dignità alla storia, sentimento fatto proprio dall’appello “La storia è un bene comune”, sottoscritto da oltre 50mila tra accademici, professori, maestri elementari, artisti, scienziati, registi e altri ancora.



Tuttavia, il declino dello studio della storia, da cui prende le mosse l’appello, ha ragioni molto profonde e domanda soluzioni ben più radicali.

Il problema principale concerne innanzitutto la ricostruzione del nostro Stato-nazione nella seconda metà del Novecento.

La storia della nostra repubblica è la storia di un popolo che ha rimosso il suo passato. Siamo cresciuti in questi 70 anni senza memoria, cercando di ricostruire un tessuto culturale e civile al di fuori della nostra storia patria e per certi versi contro di essa. Nel dopoguerra ci si convinse, infatti, che la storia italiana era negativa proprio perché italiana e per questo i riferimenti culturali dovevano essere cercati non nella nostra tradizione, ma altrove.



Mi ha sempre colpito la confessione del giornalista francese Jacques Nobécourt, per molti anni corrispondente di Le Monde in Italia: “Una delle maggiori impressioni che mi rimangono della mia lunga permanenza in Italia, e che non è mai stata smentita, riguarda i rapporti che hanno gli italiani con la loro storia recente. Gente della strada, politici, giornalisti, giuristi, ingegneri o grandi industriali, tutti miei interlocutori […] reagivano allo stesso modo quando rievocavano il passato nazionale: con un sangue freddo al limite dell’indifferenza”.

Questo rapporto problematico con il nostro passato ha finito inevitabilmente per rendere meno vivo il sentimento di un’appartenenza collettiva, rendendo tuttora il nostro paese fragile nel progettare il suo futuro. Mi rimane ancora nella memoria il ricordo di quando, davanti a un’alta carica dello Stato in visita nella scuola in cui insegnavo, fu impedito dalla dirigente di accoglierla con l’inno nazionale. Eppure è anche attraverso il sentimento suscitato dalle note di Mameli che il nostro popolo può essere aiutato a rivivere la sua storia e a diventare più consapevole della sua identità. Ma la scuola ha abbandonato la cura di questo compito, che è stata lasciata alle partite di calcio.

A questo oblio del passato contribuisce, inoltre, il contesto culturale post-moderno in cui viviamo. Le nostre vite sono oggi per lo più immerse in quella che Montanari chiama “la dittatura totalitaria del presente”. Essa è la conseguenza più diretta della caduta rovinosa delle grandi costruzioni di senso proprie della modernità, capaci di filosofie della storia onnicomprensive e di generare un forte senso di appartenenza. Il crollo delle ideologie ha così lasciato l’uomo solitario e smarrito, in balìa dell’istante, privo di relazioni nello spazio e nel tempo e perciò senza giudizio prospettico. Le giovani generazioni si nutrono di una concezione individualista e di una cultura social, basata su messaggi rapidi, istantanei e sempre nuovi, che di fatto ostacolano lo sviluppo di una coscienza storica.

Con ciò non si rimpiange certo l’eccesso di storia proprio delle filosofie moderne; piuttosto, bisogna essere consapevoli, come ricorda Nietzsche, che “solo per la forza di usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente, l’uomo diventa uomo”.

A tutto ciò si aggiunga il limite di un approccio all’insegnamento della storia ancora troppo didascalico, con scarso riferimento ai temi e ai problemi di fondo delle varie epoche. Così facendo, formiamo studenti che conoscono a memoria i fatti della battaglia di Legnano e ignorano magari che da quella vittoria si sono affermate forme di democrazia rappresentativa nell’età medievale. O ancora, per restare sull’argomento, mi è capitato di ascoltare studenti che conoscevano benissimo il principio di sussidiarietà sancito in Costituzione e nei Trattati comunitari, ma non sapevano operare nessi con la storia nel quale esso è fiorito, ovvero quell’associazionismo popolare proprio del basso Medioevo da cui sono nati i comuni e le università in Italia, rimanendo così del tutto privi di una coscienza unitaria e ultimamente critica.

Peraltro, un approccio capace di cogliere i nodi tematici di fondo superando le rigide successioni cronologiche, avrebbe il merito di sapersi interfacciare in modo trasversale con le altre discipline. A questo proposito, ha suscitato grande interesse l’iniziativa del rettore dell’Università di Roma Tre, il quale ha promosso un corso di storia per gli universitari scientifici, al fine di ovviare alla mancanza di cultura storica fra gli studenti.

L’iniziativa, seppur lodevole, non risponde tuttavia in modo esauriente al problema che intende risolvere. Infatti, una mentalità storica dovrebbe essere la chiave esplicativa di ciascun autore studiato, sia esso un fisico, un matematico o un chimico, e non solo svolgersi parallelamente ad esso. Occorrerebbe, cioè, che in ciascuna disciplina l’approccio agli autori avvenisse all’interno della loro storia particolare, in rapporto alle vicende biografiche e ai problemi del loro tempo, ai travagli e alle circostanze dentro le quali sono maturate le loro intuizioni, facilitando il confronto con il vissuto personale degli studenti.

Da questo punto di vista, l’ultimo esame di maturità è illuminante, laddove indica che la percentuale degli studenti che hanno scelto le tracce storiche è cresciuta di molto rispetto agli anni precedenti. In particolare, molti sono gli studenti che hanno scelto di cimentarsi con le imprese straordinarie di Gino Bartali, in cui lo sport si è intrecciato con pagine fondamentali della storia, mostrando così la loro predilezione per uno studio maggiormente “dinamico” e trasversale.

In fondo anche qui si annida un problema culturale con cui occorre definitivamente fare i conti. Vincere, cioè, quel pregiudizio di matrice idealista, secondo cui una realtà particolare non è in grado di fornirci conoscenze universali. Lasciarci stupire dalle storie particolari in ogni ambito, ecco un primo passo perché la Storia possa ritornare a essere protagonista, al di là delle clausole e degli obblighi ministeriali, pur necessari.