Ai tempi dell’allora ministro Bussetti (era ieri, ma sembra passato un secolo), colpevole di avere abolito il tema di storia allo scritto dell’esame di maturità, tre famosi personaggi italiani che la storia l’hanno vissuta sulla pelle, raccontata e coltivata (Liliana Segre, Andrea Camilleri e Andrea Giardina) lanciarono su Repubblica un manifesto per la valorizzazione della materia.



L’appello non riguardava solo l’insegnamento della storia nella scuola, ma più in generale la perdita della memoria storica nella nostra società. Attraversiamo un momento di “grave pericolo per la sopravvivenza stessa della conoscenza critica del passato e delle esperienze che la storia fornisce al presente e al futuro del nostro Paese” ammonivano i promotori dell’appello. I colpevoli di tale affossamento sarebbero anzitutto i social media: fanno nascere la figura del contro-esperto che rappresenta una presunta opinione del popolo. I pericoli, di conseguenza, sono le “fantasiose contro-storie; si resuscitano ideologie funeste in nome della deideologizzazione”.



L’indice però veniva puntato anche contro la scuola e l’università, dove la storia sarebbe ridotta a “conoscenza residuale”. Un esempio di questo degrado? Eccolo: “i ragazzi europei che giocano sui binari di Auschwitz offendono certo le vittime, ma sono al tempo stesso vittime dell’incuria e dei fallimenti educativi”. Il manifesto passava poi in rassegna le falle del sistema formativo del nostro Paese, dove (la numerazione è nostra): 1) la prova di storia alla maturità è indebolita; 2) diminuiscono nelle scuole le ore di insegnamento e nelle università le cattedre attinenti alla disciplina; 3) vige il blocco del reclutamento degli studiosi più giovani; 4) la situazione degli archivi e delle biblioteche è precaria. Se non vogliamo “smarrire noi stessi, la nostra nazione, l’Europa e il mondo”, concludevano i tre propugnatori della rinascita storica, occorre ripristinare la storia alla maturità, dedicarvi più ore curricolari e favorire la ricerca dentro l’università.



Ora bisogna riconoscere che l’allarme, lanciato qualche mese fa e ripreso in interviste e convegni, ha avuto un certo successo di pubblico: migliaia di adesioni sul sito di Repubblica. Tanto da indurre il nuovo ministro del Miur, Fioramonti, ad annunciare che la traccia storica sarà ripristinata nelle prove scritte della maturità.

Come? Non nella forma del classico tema di storia, ma come prova di tipo B (analisi e produzione di un testo argomentativo). In modo perentorio, cioè, la storia sarà il contenuto obbligatorio di una delle tre tracce B. Quanto al modo di insegnarla, il ministro la vorrebbe non come sequela di date e di battaglie, ma come “racconto di una evoluzione umana in ambiti che ancora ci riguardano come il progresso sociale, la conquista dei diritti civili, la partecipazione democratica”. In alcune interviste il ministro ardisce anche supporre (per il 2022!) una nuova periodizzazione per l’ultimo anno di studi superiori: dedicare lezioni all’intero Novecento, non solo le due guerre mondiali ma anche il secondo dopoguerra, ecc.

Tale è dunque lo scenario che ci offre l’odierna questione della storia nella scuola e nei percorsi formativi. Si tratta di un piatto così ricco che non si può evitare di ficcarcisi con qualche riflessione. Partendo “ab ovo” bisognerebbe forse riconoscere che la storia nel nostro Paese soffre di una vecchia malattia. Quella per cui, crocianamente, la storia è un pensiero che si realizza nella pratica. Deve essere prima di tutto storiografia: una teoria o problema che precede la ricerca. Se questa posizione può avere avuto un certo successo, oggi è decisamente improponibile proprio perché non esiste un “pensiero” condiviso.

D’altra parte, tacciare determinati fenomeni odierni di essere avulsi dalla storia (populismo) perché non hanno, apparentemente, radici storiche significa continuare a macinare un circolo vizioso, per cui solo un’élite pensierosa conosce i fatti, che però non è in grado di comunicare ai propri simili che sono troppo rozzi per pensare. Alla storia non si giunge solo attraverso il pensiero. Liliana Segre insegna che alla storia si giunge e si aiuta a pervenire attraverso la testimonianza. Tutta la storia è una testimonianza e merita di essere appresa e insegnata in quanto tale. Piace molto agli insegnanti, specie ai più preparati e volenterosi, problematizzare la storia. Se imparassero a testimoniarla (ma non solo quella contemporanea, bensì magari quella dei Greci o del Medioevo, ecc.) forse risveglierebbero l’interesse degli alunni.

Infatti, secondo punto, l’apprendimento accade per interesse. La storia è una materia difficile, forse la più difficile perché non ha agganci concreti, in apparenza. L’aggancio può essere l’interesse per la testimonianza di ciò che gli uomini hanno fatto a partire dal loro desiderio, proprio come noi oggi siamo animati da un desiderio. Però occorre l’incontro con un presente che interpella e pone le domande. La storia dunque nasce dalla domanda sul presente, da uno sguardo complessivo alla realtà, dallo stupore per la complessità nella quale siamo immersi.

Terza e ultima considerazione: la maturità. Gli alunni dell’ultimo anno superiore sono avvisati: se il governo regge fino a giugno, una delle prove scritte di italiano chiederà di riflettere su un argomento storico, presumibilmente relativo al secondo dopoguerra. Un periodo, quest’ultimo, caratterizzato a livello mondiale dal crollo delle ideologie, dal frantumarsi del mito del pensiero unico sull’uomo (abbiamo appena celebrato il crollo del Muro di Berlino) e dal trionfo della realtà sulle interpretazioni. Sarà allora importante, per chi lo vuole, insegnante o alunno, prepararsi a questa prova abbandonando una rigida programmazione e, senza retorica, seguire il filone delle personalità che hanno segnato la storia recente, uno di quei tanti uomini “senza potere” che hanno permesso a noi di vivere oggi con più libertà e dignità. In questo senso, prepararsi alla prova di storia sarà come riviverla sulla propria pelle, quella storia.