Il nodo della formazione iniziale dei docenti – rimasto a lungo sotterraneo nel dibattito sulla scuola – sta diventando centrale: anche se una pluridecennale esperienza lascia temere che si tratti dell’ennesimo distrattore per portare in lungo le scelte concrete e rendere nel frattempo inevitabile un’altra sanatoria.
Da quando la disponibilità di misure attendibili degli apprendimenti ha reso evidente la scarsa efficacia del sistema scolastico come lo abbiamo da sempre conosciuto, il tema della qualità dell’insegnamento è uscito dal limbo delle cose non evocabili, per assumere un ruolo sempre più centrale.
Ci sono due linee di pensiero, di diversa origine, che convergono in questo nuovo interesse per il tema:
1) da una parte, la constatazione che quella dell’insegnare è l’unica fra le professioni intellettuali cui non ci si prepari con un percorso di formazione universitaria dedicato. Ci sono corsi di studio per diventare avvocato o medico o ingegnere o quasi qualunque altra professione: non ce n’è uno per diventare insegnanti. Sembra quasi che tutte le lauree – e quindi qualunque epistemologia sottostante – siano utili.
Il che, ovviamente, non può essere vero: più è sofisticato ed approfondito qualunque sistema organico di conoscenze del reale, minore è la sua flessibilità. Anche a non voler ricordare Popper, la falsificabilità di una teoria al di fuori del suo ambito di riferimento specifico è una delle condizioni per la sua rilevanza scientifica. In realtà, chi sostiene la validità dell’attuale percorso è nipote legittimo dell’assunto gentiliano, per il quale sapere e saper insegnare costituiscono un insieme coeso;
2) dall’altra, la riflessione sempre più insistente su quali debbano essere le qualità di un buon insegnante: che – vista da un altro punto di vista – non è che il reciproco della domanda su quale sia la missione della scuola. Se si hanno idee sufficientemente chiare su quel che la scuola deve fare nel suo percorso fino alla maturità, si può cominciare a chiedersi quali siano i requisiti necessari di chi quel percorso deve accompagnare e sostenere negli anni.
Per molto tempo ci si è accontentati di risposte parziali: la scuola doveva insegnare a leggere, scrivere e far di conto e poi – negli anni successivi – preparare agli studi ulteriori o al lavoro. Ovviamente, la scuola deve fare questo: ma sempre più ci si rende conto che – accanto all’aspetto dello sviluppo cognitivo – parte importante del suo dover essere riguarda anche almeno altri due aspetti: accompagnare lo sviluppo della persona sotto il profilo delle competenze non cognitive (le idee chiave: quel che è giusto, quel che è vero, quel che è bello e come costruirsi le relative tavole di verità/i pilastri della personalità adulta: integrità, resilienza) e quello del cittadino in un contesto sociale (il sistema delle regole, libertà e solidarietà, sensibilità ambientale e sviluppo sostenibile, etica dei rapporti, identità personale forte ma aperta ad altre culture – e si potrebbe continuare).
In sostanza, ad un giovane diciannovenne, al termine del suo percorso scolastico di base si chiedono ormai, con maggiore o minore chiarezza, tre ordini di cose: un insieme di conoscenze orientate ad un settore (tali da sorreggere l’accesso diretto al lavoro o gli studi di approfondimento); un insieme di idee-forza relative alla persona come individuo; un insieme di attitudini al vivere in società, in un rapporto complesso di scambio con gli altri. Altri avrebbero detto: la persona, il cittadino, il lavoratore.
Se questo è il compito della scuola – al netto del contributo sempre più problematico delle famiglie – a chi spetta farsene carico? Ovviamente, agli insegnanti: separatamente per quanto riguarda le competenze cognitive, in collaborazione fra loro per quanto riguarda le competenze personali e sociali. Il che ci riconduce al punto da cui siamo partiti: qual è il percorso di formazione iniziale suscettibile di mettere un insegnante in grado di svolgere una funzione così impegnativa e multiforme? Certamente non la laurea magistrale come la conosciamo oggi, e che da sola costituisce quasi sempre il suo unico gruzzolo di partenza. E questo per più ragioni.
i) La prima è che la competenza disciplinare spinta per cinque anni, fino al limite del dottorato, finisce con l’assumere di fatto un valore finalistico: cioè di qualcosa che meriti – e richieda – di essere coltivata in sé ed in via esclusiva o comunque largamente prioritaria. Mentre nella scuola primaria e secondaria, le singole conoscenze disciplinari rivestono un valore prevalentemente strumentale: vengono insegnate, cioè, per servire ad altro. L’epistemologia estrema è riservata, non a caso, agli studi terziari. Ma chi ha conosciuto solo quella come strumento per formarsi all’insegnamento non riesce a capire come uscire dalla ricerca pura per piegare le conoscenze a fini altri e – soprattutto – in sinergia con altro.
ii) La seconda è che conoscere a fondo l’essenza scientifica di una disciplina costituisce ragion sufficiente solo per chi ha già scelto di dedicarvisi: non per i ragazzi delle secondarie. I quali, per interessarsi alla matematica o alla geografia o alle lingue hanno bisogno di ragioni che tocchino la sfera personale e non la bellezza rarefatta della disciplina in sé. Hanno bisogno di quella spinta che una volta, senza tanti giri di parole, veniva detta motivazione: cioè la capacità di vedere – dentro la disciplina – la risposta alle domande e curiosità e anche conflitti propri dell’età.
La qualità fondamentale di un buon insegnante, da sempre, sta nella sua capacità di motivare, cioè di trovare la chiave che apre la porta della curiosità dei suoi allievi. Anzi, le chiavi: perché, diverse essendo le persone, è necessario trovare gli strumenti che stimolino gli interessi di molti. Chi insegna a motivare nei percorsi universitari? Nessuno, perché si dà per scontato – anche giustamente – che chi siede su quei banchi per conseguire una laurea magistrale si sia già dato le risposte giuste per essere lì e non altrove. Ma questo ci riporta al punto: una laurea scientifica disciplinare non è il percorso giusto per imparare ad insegnare.
A conoscere i ragazzi, a saperne leggere le emozioni e le curiosità, si impara vivendo a contatto con loro, cioè in classe. Questa componente della futura professionalità docente si può apprendere solo vivendo a lungo in classe, al fianco di uno (meglio, più di uno) insegnante esperto. E dunque, tirocinio, tirocinio, tirocinio: fin dal primo anno, per periodi importanti e accompagnati da quanto basta di riflessione teorica. Non le scorpacciate di scienze dell’educazione, filosofia e pedagogia – tutte teoriche – attualmente in voga nei pochi casi in cui si esigano effettivamente i crediti specifici. Di teoria quanto basta, di esperienza diretta quanta più possibile.
iii) La terza, la più difficile da comprendere, ma senza di cui la scuola manca ad un compito essenziale: nelle aule, matura ogni giorno l’idea vivente – non quella teorica e astratta – della società di cui ci si prepara a diventare membri. Un’idea fatta di valori e di regole che non si insegnano – o solo in misura molto limitata – ma si assorbono vivendole e vedendole vivere intorno a sé. Gli arbitri che regolano questa complessa partita sono gli insegnanti, anche se molti di loro rifiutano di vedersi in questo ruolo. Molti ritengono che esso spetti alla famiglia: quella stessa famiglia di cui pure, con ricchezza di argomenti, saprebbero e sanno evidenziare i limiti. Oppure, si riterrebbero sminuiti da un ruolo di educatori: loro, che hanno studiato per essere dei maestri del sapere. Un sapere che però non riescono a rendere attrattivo e che forse ha perso attrazione anche per loro.
In realtà, quello di costituire il modello vivente dell’adulto di riferimento è il compito essenziale di un insegnante. Trascurarlo o rifiutarlo non lo aiuta ad essere efficace, anzi. Ma il problema è far comprendere e interiorizzare, ai futuri insegnanti in formazione, che questo aspetto è parte essenziale del loro compito. E far capire che il trascurarlo – o lo svilirlo agli occhi dei giovani – costituisce una vera e propria trahison des clercs, un tradimento di quel che legittima la funzione pedagogica. Un adulto che non comprende o rifiuta questa componente della funzione di insegnare non è in grado di fare l’insegnante. I danni che farà rischiano di essere superiori ai modesti benefici.
Tutti abbiamo presente l’esempio dell’insegnante che dice “non fumate” e poi si fa vedere a fumare; oppure quello che – esplicitamente o implicitamente, con l’esempio – critica le regole della scuola; o quello di chi informa gli studenti che domani “si darà malato” perché ha da fare. Esempi limite? Si vorrebbe crederlo: ma chi conosce bene le scuole dal di dentro sa bene che purtroppo non sono così rari. E quando si deplora la scarsa cura per l’ambiente urbano o per le opere d’arte, ovvero ancora il bullismo e il mancato rispetto di genere, l’evasione fiscale e l’immoralità strisciante, quanti connettono questi fenomeni a quel che ogni giorno accade senza apparente scandalo nelle scuole? C’è da chiedersi come molti insegnanti non avvertano questa responsabilità prima di tutto come la loro.
La risposta – almeno, una risposta – riconduce sempre al percorso che hanno fatto per diventare insegnanti: un percorso in cui, per anni, si è ribadita in loro la convinzione che il loro compito sia insegnare una disciplina e che tutto il resto spetti ad imprecisati altri.
Si potrebbe continuare: ma già da quel che si è detto emergono le idee chiave intorno alle quali dovrebbe essere ridisegnata la formazione iniziale dei docenti. Una laurea quinquennale, sì: ma non di natura esclusivamente disciplinare. Una laurea specifica per insegnare, che non consenta di fare poi l’ingegnere o l’avvocato o altro. Chi vuol fare una professione intellettuale ha solo l’imbarazzo della scelta. Chi vuol fare l’insegnante, fino ad oggi, quella scelta non l’ha avuta.
Dunque una facoltà per prepararsi all’insegnamento: ma al cui interno i crediti disciplinari non superino il 40-50%; in cui almeno il 30% del totale sia dedicato al tirocinio in classe, con la guida dei migliori insegnanti; e in cui il 20% sia dedicato alla loro formazione come educatori di comunità. Le percentuali non hanno ovviamente nulla di perentorio e assoluto: servono per capirsi sulle priorità da coltivare.
Altra questione sarebbe poi come da una tale laurea si passi alla cattedra. Ma questo è un altro tema, su cui chi scrive si riserva di tornare in un momento diverso.
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