La scuola italiana è sempre in emergenza e la programmazione non è di casa al ministero dell’Istruzione. A farla funzionare concorrono il Mef con le annuali leggi di bilancio, le regioni per la rete e il dimensionamento degli istituti, Comuni e province per l’edilizia, il trasporto e altri servizi come le mense. All’amministrazione centrale, con le sedi periferiche, in estrema sintesi spetta la gestione del personale, la gestione delle risorse finanziarie, i concorsi, la progettualità e il governo di otto milioni e mezzo di studenti (ogni tanto ci si ricorda anche delle scuole paritarie con i suoi 900mila alunni). Costa annualmente circa 50 miliardi l’anno e le sue performance sono sempre sotto la media degli indicatori internazionali.



Il personale è uno dei punti deboli. È costituito da 835mila docenti per tutti gli ordini di scuola, di cui quest’anno poco più di 200mila precari, con un turnover annuo di circa 15-20mila di insegnanti (personale di ruolo che va in pensione), differenziato in tantissime classi di concorso, disseminato in oltre 8mila istituti (8.548) guidati nel 2019 da 7.859 dirigenti scolastici. Ai docenti bisogna aggiungere 203mila Ata (assistenti e direttori amministrativi, collaboratori scolastici) che portano la cifra complessiva a oltre un milione di addetti.



Mobilità, frammentazione, turnover, assunzioni a singhiozzo e a seconda delle stagioni politiche, precariato con alta variabilità, diminuzione della popolazione studentesca, riforme che riformano la riforma precedente, stratificando le funzioni e compiti, sono solo alcuni dei problemi che affliggono l’istruzione e il corpo docente italiano. In più, ma qui nessuno se ne occupa, la qualità dell’insegnamento che è lasciata al caso o alla buona volontà dei singoli, visto che per la maggior parte degli osservatori e dei politici l’aspetto primario della scuola riguarda l’edilizia e il numero dei docenti. Criteri quantitativi, misurabili, certamente più facili da individuare, rispetto a quelli qualitativi a cui necessita un’attenta e duratura formazione e specializzazione. Qui conta la preparazione e l’esperienza che ognuno si fa sul campo, ma è noto che i docenti più motivati e anziani, quelli dunque dotati di know-how, non aspettano altro che uscire, perché disillusi, bistrattati anche economicamente e soprattutto, in nome dell’egualitarismo sessantottino, mai realmente messo da parte, senza carriera certa ed equiparati ai neoassunti, se non per alcune centinaia di euro di scatti salariali. 



La ministra Azzolina si è accorta che il sistema del precariato era ancora gestito con domande cartacee, per cui la partecipazione dei 700mila aspiranti docenti sarà esclusivamente on line. Con il DM 60/2020 sono state istituite le Gps (Graduatorie provinciali per le supplenze) che non hanno nulla a che fare con la localizzazione satellitare, e dovrebbero portare in cattedra nel prossimo anno scolastico i 200mila supplenti annuali mancanti. Una vera rivoluzione per il titolare del dicastero di viale Trastevere, che tuttavia potrebbe complicare le cose. Infatti la piattaforma informatica con le sue molteplici complessità sembra non essere stata ancora testata e comunque, se la modalità d’inserimento sono velocizzate, la verifica dei dati inseriti viene spostata al momento dell’assegnazione della supplenza, per cui ci potrebbero essere molti esclusi e anche tanti ricorsi, con tanta confusione a ridosso dell’inizio delle lezioni. 

L’operazione sembra interessante per il fatto che si comincia a gestire una parte del sistema di assunzioni con criteri digitali, ma sempre per rispondere a un’emergenza, quella della pandemia da Covid-19 e il blocco delle assunzioni. 

Perché allora, ci si chiede, non vengono istituiti degli uffici che si occupino in pianta stabile del personale, che usufruendo di database specifici abbiano competenze non solo dei fabbisogni, ma anche nella programmazione? È noto infatti che il numero si stabilisce annualmente con l’elaborazione dell’organico di “diritto” che poi in estate, dopo trasferimenti, pensionamenti e conta degli studenti, diventa di “fatto”. Un meccanismo che ha la pretesa di far calzare al millimetro il numero di docenti in base al numero degli studenti e delle classi di concorso richieste. Invece è impreciso, non di qualche migliaia, ma di 100-200mila docenti, che devono essere assunti annualmente per far tornare i conti.

Un’altra falla del ministero dell’Istruzione riguarda proprio il suo personale e in particolare quello in servizio nelle direzioni regionali e provinciali, che spesso è sottodimensionato. Gli ex provveditorati, ora ambiti territoriali, dovevano scomparire, ma ci si è accorti che i servizi comuni alle istituzioni scolastiche non possono essere gestiti dalle singole segreterie delle scuole, anche se aggregate, per cui sopravvivono, ma con poche risorse. Un caso simile alle province, abolite, sottodimensionate, ma ancora necessarie, tra l’altro in materia di edilizia scolastica.     

Negli ultimi due anni quota 100 ha quasi raddoppiato il numero dei docenti pensionati, acuendo il problema del reperimento del personale. Ma da un lustro mancano prof di alcune discipline, mentre di altre c’è ancora sovrannumero. Ad esempio sono cosa rara i laureati in formazione primaria, i docenti di matematica, quelli di fisica, ma anche informatica, elettronica e altre materie specialistiche sono classi di concorso in sofferenza. A scuola iniziata con le graduatorie svuotate (ora Gps) per tante materie si fa fatica a reperire i docenti, per cui in molti casi anche le graduatorie di istituto (le domande fatte direttamente ai presidi) si esauriscono e le segreterie impazziscono per riempire i vuoti. Le difficoltà poi aumentano per quasi tutte le discipline nel caso delle supplenze temporanee, quando i docenti si ammalano o chiedono permessi o aspettativa per motivi personali o di famiglia. 

Un’altra falla che rende instabile il numero dei docenti sono i part-time. Non quelli dati alle madri per accudire i bimbi piccoli o gli anziani, ma assegnati a commercialisti, ingegneri, avvocati per permettere lo svolgimento della libera professione. È un diritto acquisito, regolato dalla legge e dal contratto nazionale scuola, ma dovrebbe essere disciplinato meglio e fa sorgere il dubbio se sia possibile avere docenti che mettano al primo posto la professione e poi in seconda battuta la docenza.

Nella scuola italiana ci sono tante tutele per i dipendenti, in primis per i prof, ma nessuno si pone il problema che un milione di addetti venga amministrato in modo farraginoso, a partire dalle assunzioni. Secondo Andrea Gavosto, direttore della fondazione Agnelli, il Covid-19 nel mondo anglosassone ha causato una caduta degli apprendimenti tra il 35 e il 50%. Visto lo stato del personale docente, in Italia è un problema che non si pone.