Dopo due anni di bufera pandemica, nel bel mezzo di un settembre segnato da un’improvvida campagna elettorale e da una guerra europea che sembra destinata a non finire, in uno scenario che si colora di infinite storie personali, bambini e ragazzi di una generazione sempre più fragile stanno per riempire le aule scolastiche ed iniziare così il nuovo anno.
In questo contesto nessuno più si illude che alle attese di studenti, docenti e famiglie possano rispondere utopie, progetti e riforme calate dall’alto, dettati da qualsivoglia tipo di esperti o da politici del nuovo corso.
Eppure di una novità c’è bisogno. In molti ambiti della società ce n’è bisogno, ma forse nella scuola prima di tutto.
E non è solo questione di strutture da modernizzare, di organizzazioni da rendere più efficienti o di strumenti tecnologici dell’ultima generazione da mettere a disposizione di allievi e docenti. A ben vedere infatti la novità, l’innovazione, è una dimensione che appartiene all’educazione in un modo più profondo. L’innovazione è una dimensione propria dell’educazione in quanto essa consiste in una relazione tra persone, e le persone non sono schematizzabili in uno schema pre-definito. “Il tipo è la morte dell’umano”, diceva Pasternak.
Ogni dinamica educativa, quella che si gioca in famiglia come quella che si auspica avvenga a scuola, possiede un carattere “drammatico” (nel senso etimologico), vive di una dinamica che è propria del rapporto tra persone.
Ogni educatore, nel rapporto con un figlio o un allievo, ha provato sulla propria pelle che non vi può essere automatismo nei gesti o nelle parole.
L’atto educativo accade sempre “nel presente” ed è chiamato ogni giorno ad essere un nuovo inizio.
Chiunque ha avuto modo di svolgere una lezione di fronte a una classe di studenti ha imparato a proprie spese che la lezione di ieri replicata oggi, in modo automatico, risulta vecchia e noiosa. Come la manna di biblica memoria l’atto educativo è qualcosa destinato a consumarsi nell’oggi, pena il diventare rancido.
Ed è questa continua innovazione a rendere l’insegnamento il lavoro più bello del mondo perché, come diceva Pavese, “è bello vivere, perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante”.
La scuola quindi e la didattica che vi si insegna è destinata ad essere innovativa e forse è proprio per questo che anche quest’anno il Festival nazionale dell’innovazione scolastica che si svolge il primo weekend di settembre a Valdobbiadene ha attirato l’attenzione e la partecipazione di centinaia di docenti e dirigenti scolastici provenienti da tutta Italia.
Qui, tra le colline del Prosecco, patrimonio Unesco, in piena vendemmia, i ministri all’istruzione Patrizio Bianchi e ai rapporti con il Parlamento Federico D’Incà hanno scelto di chiudere idealmente il loro mandato governativo.
In questa occasione dirigenti scolastici e docenti di scuole di ogni ordine e grado hanno presentato tentativi, sperimentazioni, scaturite dalla passione, dalla riflessione e dal lavoro di chi (non per modo di dire) ci mette l’anima, e ci mette tutta la simpatia e l’affetto (come ha detto il ministro Bianchi) per gli allievi che ha di fronte. Come diceva Luca Serianni, recentemente scomparso, “chi ha scelto di fare l’insegnante scommette sui propri scolari e non può prendersi il lusso di fare il pessimista”.
In un momento storico come quello che stiamo vivendo, segnato da una “svolta epocale”, il “nuovo”, anche nella scuola, può essere atteso non da progetti di riforma, nemmeno quelli promossi da nuovi corsi politici, ma dalle esperienze e dai tentativi messi in atto quotidianamente da chi la scuola la vive e decide di giocare fino in fondo la partita educativa nei confronti dei bambini e dei ragazzi che gli sono affidati.
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