Gli alunni inglesi sarebbero dovuti rientrare a scuola il 4 gennaio, al termine delle festività natalizie, ma è intervenuta la “variante inglese”. La sua feroce diffusività ha messo in crisi il sistema sanitario, a fronte dell’urto drammatico dei bisognosi di aiuto. Ciò è accaduto non tanto perché sia cresciuta la sua letalità, bensì per la straordinaria rapidità di contagio. Così, il premier Boris Johnson, ha fatto le sue scelte e ha chiuso tutte le scuole fino al 15 febbraio. Ovviamente, ha sospeso la presenza fisica, ma non le lezioni in didattica a distanza. Poi, a partire dal 15, ci sarà la settimana delle vacanze invernali, quindi le scuole rimarranno chiuse fino al 22 febbraio.
Una decisione di lunga gittata temporale, che, senz’altro, ha comportato coraggio. Da noi, invece, si procede nel breve tempo, con decisioni centellinate, forse per evitare il coro di protesta, la cui forza sarebbe direttamente proporzionale al tempo di chiusura. Gli inglesi, adesso, attuano un lockdown duro, dopo che per mesi avevano sottovalutato il virus. Pensano di somministrare i tamponi antigenici in modo massiccio nelle scuole, ma alcuni scienziati sollevano dubbi circa la certezza di quei test. Qualora essi si rivelassero fallaci, molta gente se ne andrebbe in giro con un falso senso di sicurezza, trasportando ovunque il virus. I giornali inglesi parlano di un 60-70% di maggiore diffusività.
In presenza fisica, negli edifici scolastici, vi sono adesso solo gli alunni che hanno particolari difficoltà e che necessitano di socialità (vulnerable children) nonché i figli dei lavoratori indispensabili (kids of key workers), cioè dei medici, degli infermieri, degli operai, ecc. Sono ammessi anche coloro ai quali il governo non ha ancora comprato un device. I presidi protestano perché in certi casi, a scuola, si arriva ad avere il 70% degli alunni in presenza. Nel Regno Unito la scuola è importante e la sua apertura ha un’assoluta priorità, per tutti gli schieramenti. Ciò rende credibile la scelta della chiusura, perché è stata un’autentica extrema ratio.
Ovviamente, c’è una forte disparità tra scuole per quanto riguarda la didattica a distanza: alcune offrono servizi molto efficaci (particolarmente quelle private), altre di minore qualità e una tale situazione si riverbera sulle diseguaglianze educative. Alcuni alunni, per ristrettezze familiari, non hanno gli strumenti informatici oppure li condividono con i fratelli. Le differenze sono anche di natura regionale e quella tra Nord e Sud (nel Nord vi sono le aree di maggiore povertà) è davvero marcata. Per esempio, in una città come Manchester, molto industrializzata, si rilevano difficoltà nella gestione del virus, perché non sempre le persone, che necessitano di lavorare, si auto-isolano. Le autorità locali, cioè i sindaci, chiedono di avere una maggiore autonomia nell’amministrazione di quelle aree.
Essendo chiuse le mense scolastiche, le stesse autorità fanno recapitare i pasti a casa degli alunni (ma la qualità del cibo offerto è spesso criticata). Prendiamo un esempio. Nella Latymer Upper School (Hammersmith, Londra), che è prestigiosa, l’insegnamento di scienze motorie non è solamente teorico, come avviene in Italia con la didattica a distanza; da noi, infatti, gli insegnanti possono solamente consigliare alcuni esercizi, invece le scuole inglesi ammettono dei veri e propri esercizi, praticabili anche in cucina, live, e gli alunni si esercitano nelle loro abitazioni. Poi partecipano anche a delle lezioni teoriche, ma piuttosto brevi. In alcuni casi lavorano da soli, seguendo i video scaricati dall’hub della scuola. Al termine degli esercizi, svolgono delle relazioni su fogli di Google, che poi vengono inviati ai docenti per la correzione. Spesso gli alunni lavorano in modo asincrono, cioè autonomamente, perché c’è una forte attenzione a non stressare i ragazzi di fronte ai monitor e, dopo brevi spiegazioni, i docenti chiedono loro di disconnettersi.
I sistemi scolastici italiano e inglese possiedono molti aspetti simili, ma racchiudono anche forti diversità. Margaret Archer ci spiega, in un noto saggio, che la maggior parte dei sistemi scolastici nasce tra la fine del XVIII e il XIX secolo ed evidenzia la diversità della loro origine. Mentre quello italiano, ad esempio, segue il modello francese, con una forte sottolineatura del ruolo centralistico dello Stato, quello inglese nasce presso le comunità locali, libere dal controllo dei poteri centrali. Oggi, i sistemi scolastici tendono a diventare sempre più simili, tuttavia permane una differenza, che è data dal rilievo dell’autonomia scolastica: mentre le scuole inglesi hanno forti poteri di autogoverno (scegliendo, ad esempio, i docenti da assumere, gestendo significative risorse economiche e “rispondendo” alla comunità di appartenenza di ciò che hanno fatto), quelle italiane dispongono di prerogative ridotte.
Attilio Oliva scriveva alcuni anni fa sulla rivista Treellle: “(…) se la scuola non ha soldi da gestire, non ha margine sui curricoli, non può scegliersi i docenti, questa autonomia è un flatus vocis, e se è un flatus vocis è inutile parlarne (…)”. Quali sono le conseguenze di questa mancanza di poteri? Senz’altro possiamo affermare che essa produce incertezza.
In Gran Bretagna, invece, l’autonomia è forte, anche se la decisione di alcune scuole del quartiere londinese di Greenwich (come il Dulwich College, ad esempio), che avrebbero voluto chiudere in anticipo, rispetto al previsto lockdown natalizio, non è stata attuabile per l’opposizione da parte del governo. L’opinione pubblica, generalmente, ha fiducia nelle scuole. Alcuni editorialisti hanno concluso i loro articoli con l’invito a “lasciar fare ai presidi”.
Come quelli italiani, i presidi inglesi si danno molto da fare e utilizzano varie modalità per mantenere attivo il servizio d’insegnamento. Quando vi sono alunni in presenza, i docenti tengono lezione contemporaneamente anche per quelli a casa. La simultaneità dell’insegnamento in presenza e “a remoto” è sempre più diffusa. Nel caso in cui vi siano insegnanti fragili (vulnerable teachers), questi ultimi, dalle loro abitazioni, tengono lezione, contemporaneamente, a una parte di alunni che è presente in aula e a un’altra parte che è a casa. Ovviamente, gli alunni in aula non sono lasciati soli, piuttosto vengono affidati a giovani insegnanti, la cui funzione è solamente quella di vigilare. I presidi dichiarano che potrebbero far di più, se solo avessero i finanziamenti giusti…
Cosa accade in Italia? Ovviamente, sul versante politico, la scuola risente della crisi in corso, ma le ombre erano evidenti già da qualche tempo. Il sistema dei poteri, i quali riversano la loro azione sulla scuola, appare soggetto a quella confusione che è stata definita “anarchia di Stato” (Tremonti). Il 24 dicembre 2020, il ministro della Salute ha emanato un’ordinanza in cui si prescrive “l’attività didattica in presenza al 50 per cento della popolazione studentesca”. Poi sono scesi in campo i prefetti, cioè il ministero dell’Interno, per garantire l’osservanza delle disposizioni contenute nei più recenti Dpcm. Tutto questo, mentre la voce della ministra Azzolina si faceva via via più flebile e la sua insistenza sul rientro a scuola suona adesso come una predica nel deserto.
Anche in Gran Bretagna c’è forte disorientamento, ma la voce delle scuole autonome non è mai venuta meno, né viene posto in discussione il loro operato, perché l’autonomia ha una forte tradizione. Non così in Italia, dove, a causa del difetto di reali poteri, le scuole autonome corrono il rischio di diventare capri espiatori di disfunzioni esterne, come quella dei trasporti. Non solo: alcuni politici, per non rendere manifesta la propria inettitudine, pongono in discussione la stessa autonomia, additandola come la fonte di tutti i mali. Gli inglesi hanno fatto molti errori con la pandemia (come noi, del resto), ma le scuole inglesi ci offrono un’indicazione importante: confidare nell’autonomia.