Tutto bene. Va tutto bene. I prof ci sono, i banchi anche, le aule pure. Nelle periodiche dichiarazioni della ministra, la scuola italiana corre tranquilla lungo i binari della normalità. Non c’è ragioni di preoccuparsi se qualche ingranaggio della “macchina” non gira a dovere: da che Repubblica è Repubblica, è sempre stato così, perché non dovrebbe esserlo in questi tempi difficili da pandemia di ritorno?



Poi entriamo a scuola e ci accorgiamo che la realtà è diversa e che insistere a non volerla guardare in faccia si rischia di ingenerare dubbi atroci. A cominciare dall’atrio, dove da una settimana stazionano centinaia di banchi nuovi. Non hanno le famose rotelle (a proposito, che fine avranno fatto quelli con le ruote? non se ne sente più parlare), ma in compenso arrivano incellofanati e smontati. Direttamente dalla Spagna. Si vede che in Italia non abbiamo abbastanza industrie per produrli (in Spagna, dove il Covid ha colpito peggio che qui, producono banchi anche per noi).



Ci lavorano attorno due operai, pinze e cacciaviti alla mano. Impiegheranno settimane prima di montarli tutti. Sono banchi singoli, così da eliminare quelli doppi che, in ossequio alle “distanze boccali” di un metro, da un mese costringono metà degli alunni a stare seduti di lato e a farsi venire il torcicollo per guardare la lavagna e il prof in cattedra.

Che poi non è nemmeno una cattedra, ma un banco esattamente come quello dei suoi alunni: con l’avvio a pieno regime delle lezioni di Cittadinanza, deve essere stata una scelta, più che una necessità, per dare l’idea di cos’è la democrazia. Resta da vedere se, con l’arrivo dei banchi singoli, tornerà la cattedra vera, ma sarebbe un segnale antidemocratico difficile da far digerire.



Intanto, il primo mese di lezioni se n’è andato e, a proposito di cattedre, in tutto il Bel Paese mancano ancora migliaia di insegnanti di sostegno. Storia vecchia, si dirà. Appunto per questo. La pandemia ha aggravato un sistema farraginoso in cui gli ultimi rimangono ultimi. Così, siamo alla disperata ricerca di docenti che affianchino bambini e ragazzi con disabilità, quelli che per ragioni assolutamente oggettive hanno più bisogno di altri di essere guidati.

Ma, anziché pensare a confermare le graduatorie precedenti e ad immettere nuovi insegnanti in ruolo, il governo ha creduto bene (si fa per dire) di rinnovare le prime e di rimandare i concorsi, col risultato che i tempi di chiamata (e di risposta) degli interessati si sono allungati più del solito.

Lo stesso per i dirigenti, che con migliaia di sedi vacanti hanno dovuto (dovuto?) accettare le reggenze, non di rado a decine di chilometri di distanza dalla sede di titolarità. Per tutta la settimana corrono da un istituto all’altro, così che sono costretti a delegare la soluzione dei problemi ai vicepresidi, distaccati per questo dall’insegnamento (si generano, così, altre cattedre scoperte).

E le aule? Negli istituti superiori le soluzioni adottate variano da caso a caso perché gli spazi non sono sufficienti ad ospitare tutti e a rispettare le regole sul distanziamento. C’è chi alterna un giorno in presenza ed uno con la didattica a distanza, chi riduce le ore a 45 minuti, chi fa lezione all’aperto (nel Sud Italia perfino sulla spiaggia, finché il tempo lo permetterà: e dopo?).

Ci sono, poi, le norme anti-assembramento: ne vogliamo parlare? Nessun adulto può entrare a scuola che non sia docente o per motivi di assoluta necessità, tipo un genitore che debba prelevare il figlio con la febbre. Poi il ministero conferma le assemblee dei genitori in presenza, con relative votazioni per il rinnovo della loro componente in seno ai consigli di classe. E allora tutti dentro, centinaia di persone: al termine, chi penserà alla sanificazione delle aule? L’Associazione nazionale presidi protesta, il rito delle votazioni poteva benissimo venire rimandato. Invece no, idem come per le cattedre: la stanca democrazia dei nostri giorni non può accettare l’affronto di soprassedere al voto. Anche se alle urne (scatole delle scarpe recuperate all’ultimo minuto dai docenti, che col fai-da-te hanno incartato e tagliato il coperchio per poter introdurre la scheda: ogni classe deve avere la propria e le scuole non hanno urne per tutti) ci va meno della metà degli aventi diritto e anche se questo genere di rappresentanza, nata decenni or sono sull’onda lunga dei decreti delegati, lascia ormai il tempo che trova.

In tutto questo, che fine ha fatto la didattica? La trasmissione del sapere, delle conoscenze, dei contenuti disciplinari? Le classi di ogni ordine e grado, dalle medie alle superiori (alle elementari vengono già tutti promossi a prescindere) sono piene zeppe di alunni passati avanti grazie allo sciagurato decreto che, sul finire del passato anno scolastico, impose la bocciatura solo col voto unanime dei docenti, così che bastò un solo voto contrario per far ridere a crepapelle chi aveva tutti 4 sul registro.

In ogni caso, della didattica non si parla. Che ci pensino professoresse e professori, non sono pagati per questo? È l’ultimo dei problemi e se il proverbio ha ancora ragione d’essere, raccoglieremo tempesta fra qualche anno, dopo aver seminato vento.