Lo scoppio della pandemia nel 2020, ma ancora di più il deflagrare della guerra in Ucraina con l’aggressione della Russia nel febbraio scorso, hanno riportato in primo piano l’esigenza di andare a “rovistare” nel passato alla ricerca di “perché” e di “come”, risalendo a ritroso il filo d’Arianna, nel dedalo di fatti e avvenimenti alla ricerca di analogie, differenze o comunque di categorie in grado di offrire una direzione di senso ad avvenimenti che – per la loro eccezionalità – hanno scosso l’inerzia di una didattica forse troppo zavorrata da programmi rigidi, vera e propria confort zone per il docente distratto.
Se le analisi geopolitiche degli esperti in Tv sono apparse sbilanciate verso il futuro nel descrivere i possibili scenari internazionali, la storia sembra aver consolidato la sua vocazione di luogo in cui i fatti si sono sedimentati nella loro plasticità e, dunque, messi a disposizione per dare la possibilità di un serio esame di coscienza per l’umanità. Riecheggiano in classe i nomi dell’Ucraina, della Russia, della Bielorussia, della Finlandia, della Crimea, di Kiev; i concetti di assolutismo, autocrazia, imperialismo, democrazia, sterminio, trattati di pace; e tutti assumono immediatamente un significato, meno patinato e più esistenzialmente ruvido, come se si staccassero dal foglio piatto del libro di testo e uscissero dall’anonimato in cui lo “svolgimento del programma” normalmente li schiaccia.
Questa esperienza che, comunque, ha permesso quanto meno di indicare ai ragazzi che “c’è un mondo, là fuori”, tuttavia, corre il rischio di rimanere puntiforme se relegata all’emozione del momento, risucchiata, più o meno rapidamente, dalle sabbie mobili del “quotidiano che taglia le gambe” col suo bagaglio di cinismo, indifferenza o, semplicemente, dimenticanza; fino al prossimo scossone. Insomma: senza incontrare concretamente qualcuno con cui intessere un rapporto, tutto lentamente si appiattisce e diventa astratto.
E allora ecco l’esperienza fatta incontrando con alcuni ragazzi padre Stepan di Leopoli, che ci ha raccontato di sé, della sua famiglia, dei profughi in arrivo che sta aiutando ad accogliere, del perché gli ucraini non demordono; ma anche l’incontro con chi non c’è più, come – per la Giornata della memoria – Giorgio Perlasca e Ines Figini, da cui è nato un testo teatrale con un dialogo immaginario tra i due e che ha permesso un confronto reale dei ragazzi con il tema del perdono; e poi, con alcuni, la decisione di affrontare un viaggio logorante a Roma per incontrare Papa Francesco, che invita a non avere paura testimoniando chi la pace e la riconciliazione la può dare. Ebbene tutte queste cose attestano che uscire dalla routine sfiancante dello studio è possibile.
La scuola può diventare un’esperienza reale se contempla la possibilità di incontro con gli autori che si studiano, con i personaggi della storia, la possibilità di riviverne i vissuti i perché, i come. Da questo punto di vista il lavoro dell’insegnante è determinante nella misura in cui è lui per primo ad avere effettuato questi incontri. Ma per incontrare è necessaria una ferita che è anche una fessura aperta nel cuore. Anche in questo caso il lavoro del docente diventa essenziale per educare il cuore a non restare chiuso negli schemi dei pregiudizi ideologici che impediscono di vedere la realtà per come è fatta sovrapponendole delle interpretazioni. È ciò che è emerso chiaramente anche dall’incontro con Agnese Moro e Franco Bonisoli: “Gli altri erano dei simboli e, in quanto tali, da distruggere”.
Ecco: accorgersi della realtà, soprattutto accorgersi degli altri come necessari per accorgermi di me. Per tutto questo non basta la buona volontà. Ci vuole un luogo che educa costantemente.
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