La firma del nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) del comparto della scuola, oltre all’aumento di 124 euro circa (lordi) per ciascun docente, non sembra offrire spunti per appassionare l’opinione pubblica e neppure gli esperti. A parte le prevedibili e rituali dichiarazioni di soddisfazione delle parti, appare abbastanza difficile intravedere elementi di novità. A ben riflettere, una tale orchestra di laudatores dovrebbe suggerire qualche perplessità, se si considera un sistema scolastico come quello italiano, dove, secondo i test Invalsi, si hanno quote elevate di alunni che al termine del ciclo di studi secondario presentano impressionanti carenze in alcune discipline fondamentali; dove tra Nord e Sud vi sono dei dislivelli di apprendimento i quali fanno dubitare dell’appartenenza dei giovani a un unico sistema educativo nazionale.
Ci si sarebbe aspettato da parte dell’amministrazione e da parte sindacale un cambiamento di rotta, se si considera che una tale situazione implica molteplici responsabilità, le principali delle quali risalgono proprio alle parti contraenti. In realtà è cambiato solo il paradigma politico: se, a fronte dei tentativi di cambiamento dei governi di alcuni anni fa, si registrava la sindrome del “benaltrismo”, per indicare quei furori ideologici che animavano il rifiuto pregiudiziale di qualsiasi tentativo di cambiamento, oggi il clima pare decisamente diverso. Gli unici cambiamenti plausibili sono quelli che vanno in continuità (il che è un evidente ossimoro), senza neppure lo sforzo di dimostrare che, all’apparenza, tutto sia cambiato. Il Gattopardo non ha più bisogno di nascondere la sua permanenza inalterata, schermandosi dietro le parvenze. Anzi oggi pare segno di saggezza l’inamovibilità delle cose, senza cercare alcuno straccio di giustificazione alla rinuncia di possibili miglioramenti.
Difficile ipotizzare che il varo dei docenti tutor e orientatori vada nella direzione di una carriera dei docenti, nonostante che due riforme della pubblica amministrazione, ancorché di segno diverso (Brunetta e Madia), convergessero nel promuovere forme di meritocrazia. Gli aumenti stipendiali, come sempre, sono distribuiti “a pioggia”, senza alcuna distinzione personale.
Nulla di significativo che riguardi la formazione e l’aggiornamento (che anzi vengono piazzati all’interno del monte di 40 ore annuali, sempre più esiguo in rapporto alle necessità); nessuna indicazione circa la didattica che sostanzialmente risale all’impianto idealistico di un secolo fa (la cui arretratezza pone in evidenza il rischio di rendere inutili gli investimenti del Pnrr in tecnologia). Nessuna novità che riguardi il potenziamento e la qualificazione delle segreterie, gestite sempre più da ex bidelli, privi della formazione adeguata; nessun accenno, infine, al tema della governance delle scuole (che ancora risale ai decreti delegati del 1974).
Se è vero che c’è qualcosa sulle carriere alias degli alunni e dei docenti, le novità del contratto non possono ridursi a questo. Certamente non vi è alcuno stimolo a che la scuola cambi dal punto di vista della maggioranza dei docenti, nel disprezzo di quella minoranza che dà l’anima, senza alcun riconoscimento. Molti insegnanti, infatti, nonostante si lamentino per il magro stipendio e per gli scarsi riconoscimenti sociali, dichiarano che, se tornassero indietro nel tempo, rifarebbero le stesse scelte lavorative (indagine Talis 2018).
Si tratta del cosiddetto salario invisibile, cioè di un insieme di vantaggi, perlopiù impliciti, di cui gode la categoria. Ne elenco alcuni sinteticamente. Essi sono la totale mancanza di valutazione, che viene rifiutata anche se declinata in termini solamente positivi e cioè in vista dell’attribuzione del cosiddetto bonus premiale (fieramente osteggiato da parte sindacale), il ridotto orario di servizio (i docenti, secondo l’Oecd, hanno gli orari più bassi in Europa), la mancanza di competizione (per la quale il giudizio negativo delle famiglie e dei colleghi produce scarsi o nulli effetti) e, visto che siamo in estate, i tre mesi di vacanze integralmente a disposizione delle maestre. Su quest’ultimo punto vale la pena di sviluppare alcune considerazioni.
La questione che pongo è la seguente. Tutti i docenti, infatti, dispongono mediamente di un numero di ferie annuali ben superiore ai canonici 32 giorni (in realtà 36, se si considerano anche i 4 giorni che possono essere concessi in ragione delle cosiddette festività soppresse). Infatti, prendendo in esame i periodi di vacanze natalizie, pasquali ed estive, i giorni in cui è possibile non andare al lavoro sono ben più di 32. Qualcuno potrebbe chiedere perché gli insegnanti, una volta che abbiano fruito delle ferie, non vengano occupati in altri compiti. Ebbene non è possibile, perché le attività per le quali possono essere impegnati devono essere avallate, appunto, dal collegio dei docenti, che, anche secondo il nuovo contratto nazionale, deve deliberarle. Ed è ovvio che nessun collegio decida di compiere attività nel periodo estivo. Tant’è che anche i corsi di recupero, obbligatori per gli alunni, sono facoltativi per i docenti e chi di loro li effettua riceve un pagamento extra.
Varrebbe la pena tenere aperte le scuole d’estate e svolgere progetti per gli alunni, soprattutto per quelli che non vanno in vacanza? La domanda è retorica, perché è del tutto evidente che esse dovrebbero essere centri di attività educative permanenti e funzionanti anche d’estate. Si potrebbero organizzare campi estivi, gestiti dalle maestre, per i bambini più piccoli. In generale, le scuole dovrebbero rimanere aperte tutta la giornata, anche d’inverno, perché la loro funzione educativa non si riduce all’orario scolastico mattutino.
Per queste ragioni, il ministero avrebbe dovuto avere un maggiore coraggio nei confronti dei sindacati. La questione delle ferie rappresenta quell’equilibrio disfunzionale che soddisfa la maggioranza dei docenti e al contempo ne frustra quella parte essenziale che porta avanti il lavoro delle scuole, la quale ambirebbe ad avere un ruolo professionale meglio pagato. La carriera dei docenti, compensata anche economicamente, dovrebbe prevedere una piena disponibilità anche estiva. Per arrivare a questo, tuttavia, occorre il coraggio di porre in discussione gli equilibri pregressi, disfunzionali, anche affrontando l’ostilità dei sindacati. Gentile ministro, “qui si parrà la tua nobilitate”.
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