L’epilogo che non ti aspetti. Quando si inizia un anno scolastico all’insegna del coltello tra i denti, tra posizioni di principio e più o meno varie ideologie personali da difendere a spada tratta manco fosse la fortezza Bastiani, che si finisca l’anno cantando insieme non rientra certo nell’alveo del prevedibile e dello scontato.



Eppure, è successo. “Se i ragazzi fanno lo spettacolo di fine anno, potremmo cantare una canzone anche noi”. Una frase buttata lì, senza grandi pretese di serietà, anzi, con una certa qual ironia. Eppure, basta un “Dai, facciamolo” detto a mezza voce per scompaginare le carte.

Ed ecco che un piccolo gruppo di prof inizia a lavorare sulla strampalata idea di suonare So this is Christmas in coda allo spettacolo natalizio. Piano piano, c’è chi rispolvera il vecchio violino, che suonava alle superiori. Chi tira fuori il trombone, reduce di trascorsi nella banda locale. Chi si scopre reduce da lezioni di batteria. “Ma dai, per farci prendere in giro dai nostri studenti per quanto siamo stonati e scoordinati?” “E allora? Dai, facciamolo”.



Il gruppetto si allarga, tra chi canta nel coro della parrocchia e chi non ha mai cantato, tra chi ha conoscenze operistiche e chi non ha nemmeno una bella voce. E si prova, insieme, al pomeriggio, ridendo dei propri limiti con una leggerezza impensabile, quasi liberatoria. Un palese controcanto alla pesantezza che spesso si sconta al mattino, quando sembra che si sia obbligati a tenere il punto con studenti e colleghi, non sapendo più nemmeno perché. Cos’è tutto questo? Cos’è quello stare insieme, senza la preoccupazione di rendersi ridicoli, senza l’ossessione di un livello accettabile da raggiungere ad ogni costo ma, nel medesimo tempo, impegnandosi con molta serietà verso un obiettivo comune? Cos’è quell’allegria insospettabile sul viso di certi colleghi?



Quel “Dai, facciamolo” suona folle, irrazionale. Non ha basi educative, filosofiche, matematiche. Nonostante i limiti canori di ciascuno, nonostante partecipino persone che non si trovano necessariamente simpatiche tra loro, anzi, è irresistibilmente attraente. Alla fine, si va davvero in scena. E la sorpresa delle sorprese sono loro, i ragazzi. La campanella è suonata, manca solo una canzone, lo sgangherato So this is Christmas dei professori. Per una volta, tra la suadente sirena della fuga da quel luogo di perdizione altrimenti detto scuola e la curiosità, vince la seconda. I nostri studenti rimangono fino alla fine della canzone. Il loro non è uno sguardo apatico, giudicante o di beffardo scherno. Si lasciano coinvolgere dal ritmo, dall’entusiasmo; cantano insieme ai loro insegnanti, persino. Stanno vivendo un’esperienza surreale: i loro prof sembrano all’improvviso più umani, sorridono, ci credono anche se stonano, sono insieme senza sputarsi addosso. Cosa diavolo sta succedendo? Succede che gli abbiamo insegnato la bellezza e l’unità e loro, istintivamente, l’hanno capito.

A volte la realtà sorprende. Forse chiamarli momenti in cui accadono “miracoli” suona stucchevole, eccessivo. “Cringe”, come direbbero i nostri alunni. Del resto, i giornalisti ci hanno abituati alla banalizzazione del termine, gridando al miracolo ogni qualvolta accade qualcosa di vagamente sensazionale, anche quando sensazionale non è. Però quel che è accaduto quella mattina del 22 dicembre, a distanza di qualche tempo, miracolo lo appare davvero.

Poi siamo tornati, abbiamo ricominciato ricadendo, come sempre, nei nostri odi, nelle nostre piccolezze, nei nostri sgarbi reciproci e nelle nostre leggi del sospetto. Però ricordiamoci che siamo pur sempre ancora capaci di volare alto. E che è quando voliamo alto che rispondiamo di più alla nostra missione educativa.

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