Fatta forse eccezione per la Riforma protestante e le due Rivoluzioni, quella americana e quella francese, chi si ricorda la storia moderna? Pane per gli specialisti, gli appassionati e i prof. Sei secoli di intrecci complicati tra poteri sempre più secolari, fedi religiose, alleanze, confini, guerre civili e non. Eppure, sono proprio lì le “radici del nostro presente”. È in uscita per i tipi di Rubbettino il saggio di Fabrizio Foschi Una storia dell’epoca moderna. Spazi, trame, personaggi. Alle radici del nostro presente, con prefazione di Franco Cardini.
L’autore è stato per anni docente nei licei, presidente dell’associazione Diesse dal 2006 al 2014 ed è collaboratore del Sussidiario. Stanco del grande “buco nero” rappresentato – nelle nostre scuole – dalla storia moderna, ha deciso di sviluppare un approccio nuovo. Non è un nuovo manuale. Occorreva – spiega Foschi – “ritrovare la modernità nella concretezza del tempo contingente”. Ecco cosa ci ha detto.
Professore, sappiamo che la storia – la disciplina storica, almeno, perché il tempo continua a scorrere, per tutti – è in crisi. È una crisi definitiva? La storia è “finita”?
È forse troppo presto per decretare “la fine della storia” – per riprendere il controverso saggio del ’92 di Francis Fukuyama – nella scuola italiana, ma i sintomi di ciò che potrebbe accadere sono preoccupanti. La storia insegnata dipende nella sua sostanza contenutistica dal livello della ricerca storiografica e dall’importanza che l’intera società attribuisce alla conservazione del passato. Entrambe le dimensioni si sono indebolite, salvo nobili eccezioni: non mancano programmi televisivi di qualità, percorsi artistico-museali eccellenti, opere specialistiche. Gli storici, gli opinionisti, i docenti universitari non bastano a evitare un declino al quale non riescono ad opporsi nemmeno le reti informatiche, i cui dati deperiscono e richiedono una sempre nuova interpretazione.
A proposito di declino. Ha fatto discutere un recente editoriale sul Corriere di Galli della Loggia, “La Chiesa che sta perdendo l’Europa”, sulla perdita delle radici europee del cristianesimo. Che ne pensa?
Se a Galli della Loggia si può imputare una inadeguata messa a fuoco dell’oggetto (il cristianesimo non ha una genesi europea), non c’è dubbio che sul versante dello smarrimento di una qualche coscienza delle radici ebraico-cristiane dell’Europa abbia ragioni da vendere. Altri studiosi contemporanei di diversa estrazione culturale – da Luciano Canfora a Adriano Prosperi a Marcello Veneziani – hanno più volte denunciato l’assottigliarsi di una memoria condivisa del nostro passato.
D’accordo. Ma le cause?
Metterei ai primi posti la prevalenza di una certa stanca retorica su fatti e contesti trascorsi che andrebbero temporalizzati diversamente. Il libro si propone appunto di inquadrare i fondamenti di una storia che non dovrebbe essere dimenticata.
Ecco, veniamo a Una storia dell’epoca moderna. Non è un manuale. Nondimeno, è corretto dire che nasce dall’esperienza dell’insegnamento?
Sì. La scuola ha indubbie responsabilità in questa specie di dramma culturale collettivo: tempi ridotti, manuali scolastici che dialogano con l’online più che con gli studenti, le famose tracce scomparse all’esame di maturità. Ma non la si può mettere sempre sul banco degli imputati. Gli insegnanti fanno quello che possono.
Quindi?
Sembra più grave un certo ristagno dell’ambito storiografico, che ripete una certa vulgata e dal punto di vista comunicativo subisce la concorrenza della video-storia, non certo disprezzabile, ma infruttuosa se l’obiettivo è quello di costruire una “coscienza” storica. L’intenzione che anima il testo in uscita è, dunque, quello di fare parlare la storia, cioè ridare voce e spessore a un lungo periodo di oltre 500 anni, dal XIII secolo all’inizio del XIX, così da fornire all’insegnante o a chi si interessa di storia uno strumento agile che serva anzitutto a prendersi cura di un certo tempo storico definito come modernità.
Torniamo in classe. Quali sono, in dettaglio, le manifestazioni più acute della crisi che l’hanno indotta ad intraprendere il lavoro? La difficoltà a trattenere qualcosa del periodo preso in considerazione, così complicato e lontano dai giorni nostri? O un deficit culturale documentabile negli studenti all’ingresso nella contemporaneità?
Della storia moderna non si trattengono, generalmente, le tensioni umane poste tra memorie precedenti e grandi aspettative. È trattata nell’insieme come Ancien régime, l’antico regime che le rivoluzioni hanno superato. Invece, a mio parere l’epoca moderna consegna alla contemporaneità elementi sui quali vale la pena riflettere con gli alunni, per esempio il valore dei legami comunitari che permangono anche se lo Stato moderno li combatte. Nello stesso tempo lo Stato è una entità che si afferma poco alla volta, non è subito “assoluto” come si suole dire. È poi interessante fare un raffronto tra l’Est e l’Ovest del mondo per capire che esistevano interconnessioni insospettabili. La globalizzazione con tutti i suoi vantaggi e limiti è un’invenzione dell’uomo moderno.
Ma perché una storia dell’epoca moderna?
La categoria del “moderno” è stata affrontata da vari punti di vista che ne hanno esaltato o criticato l’apporto antropologico o filosofico. Nel libro in questione si parla anzitutto di “epoca” moderna che, come sottolinea il prof. Franco Cardini che ha curato la presentazione, non è necessariamente lo stesso che parlare di “età moderna” o di “era moderna”. Ora, discutere di modernità in termini filosofici ha un indubbio interesse, ma ritrovare la modernità nella concretezza del tempo contingente è un lavoro non meno entusiasmante che non può prescindere dagli “esempi” di modernità che ci vengono proposti dalle vicende storiche.
Ci spieghi bene questo punto, per favore.
I secoli in questione sono ricchi di fenomeni che messi a confronto con il precedente apporto medievale e il successivo filone della nascita degli Stati nazionali evidenziano il carattere dell’uomo moderno, specialista di grandi salti: grandi fratture, grandi scoperte, grandi ambizioni. Durante la “lunga modernità”, posta tra la fine dell’universalismo medievale e la rivoluzione francese che sfocia nell’assolutismo napoleonico, la superiorità del fattore religioso nell’esistenza dell’uomo è sostituita dal successo individuale nei vari campi dell’agire umano: scambio di beni, costruzione di ambienti sociali, elaborazione delle norme giuridiche. Sulla scena della storia si succedono grandi individualità che devono decidere se porsi al servizio di una idealità non solo temporale (Las Casas per esempio), se fidarsi esclusivamente dei propri progetti (Napoleone) o vivere nel dramma dell’essere intermedi tra l’una e l’altra dimensione (Carlo V).
Che struttura ha dato al lavoro?
È articolato in quindici capitoli e altrettante brevi “focalizzazioni”. Ogni capitolo, in cui si cerca di ragionare sulle cause degli eventi senza abbandonare la forma narrativa, parte da una domanda. Nel capitolo sulla riforma protestante, per esempio, ci si chiede: perché la Chiesa cattolica non si riformò prima che Lutero facesse esplodere la sua Riforma? La domanda è diversa dalla curiosità che porta lo studioso a interessarsi di un dato periodo.
Perché questo approccio?
Ma perché la domanda rivolta al passato nasce dalla consapevolezza che il passato può rispondere, se interrogato nella maniera opportuna. La domanda giusta, che nasce da un’esperienza personale calata nel presente, può fornire la documentazione testimoniale corrispondente. Questa modalità di sviluppare i temi trattati può essere fonte di approcci creativi negli ambiti della istruzione o della stessa ricerca (come d’altra parte dimostrano molti storici svincolati da un’ansia dimostrativa dal sapore ideologico).
A chi è rivolto esattamente il suo saggio?
Questo è un aspetto importante. È opportuno sottolineare che il volume non è propriamente un manuale scolastico, anche se può presentarne alcune caratteristiche, come la disposizione cronologica degli argomenti, lo stile il più possibile narrativo-discorsivo, l’abbondanza delle informazioni. Pur privo di apparato didattico, intende fornire alcune linee interpretative delle diverse sequenze. Si rivolge pertanto ad insegnanti, educatori, persone impegnate nel sociale o semplici cultori di storia, affinché ritrovino gli spunti originari che consentono di parlare ai più giovani e a chiunque sia attirato dalla materia. Per gli insegnanti il volume può essere un sussidio utile ad approfondire e a reinterpretare il personale patrimonio di conoscenze, nell’ottica di una formazione permanente.
È anche alla portata di un bravo studente appassionato di storia?
Mi auguro di sì, ai ragazzi piace la storia se viene affrontata ponendo domande che nascono dal presente. La storia non offre facili soluzioni e non si ripete, perché è il luogo in cui si realizza – quasi sempre – l’imprevisto. In questo senso presenta un alto valore educativo.
Il suo libro non potrebbe essere visto o utilizzato come una scorciatoia, soprattutto – non ce ne vogliano – dai suoi colleghi che hanno un background più filosofico che storico? Dopotutto, la storia moderna è molto faticosa…
Il libro non è scritto da uno specialista di storia moderna. È scritto da un insegnante (ex) in modo serrato senza pretese di onnicomprensività. Alcuni temi e alcune focalizzazioni accennano velocemente ai problemi relativi. Se fare storia significa “comprendere” più che “spiegare”, la filosofia può certo servire, ma serve anche la pazienza di chinarsi sugli eventi per coglierne il senso.
Un’ultima considerazione. Perché oggi a suo avviso occorre tornare ad una esposizione che ha chiamato “narrativo-discorsiva”?
Riprendo il tema molto delicato del senso della storia. Se badiamo alla superficie, a ciò che l’apparenza ci restituisce, sembra che la storia non abbia senso. Ritengo invece che le cose non stiamo in questi termini. La storia è un luogo in cui un “senso” talvolta accade, occorre coglierlo. La forma narrativo-discorsiva è un modo di porre gli eventi in una disposizione testuale che presenta un orientamento. La sfida che impegna chi scrive di storia, in qualche modo, è di verificare se questo orientamento “tiene” rispetto a ciò che è rappresentato. Altrimenti è meglio cambiare.
(Max Ferrario)
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