Uno spettro si aggira per le scuole. È lo spettro dei soldi. Anche se sembrerebbe l’incipit di una parodia del Manifesto del partito comunista di Karl Marx, è la pura verità: in questi giorni, infatti, sono finalmente stati sbloccati i soldi del Pnrr dedicati al comparto scolastico.
L’avvio alle grandi spese per un restyling di qualità è iniziato dunque? Non proprio. La scuola italiana ha la tipica sindrome dell’italico vincitore al superenalotto: dopo essersi dato un paio di forti pizzicotti sulla guancia per sincerarsi che non sia un sogno, ecco che lo prende la paura. E se li perdo? E se li sprecassi? E se…
Il problema è che i soldi del Pnrr vanno spesi, per forza. Non si possono tenere lì, senza un progetto, senza un’idea, in attesa di trovate migliori, altrimenti il treno passa e se ne va, mentre noi rimaniamo fermi e impalati alla stazione.
L’assurdità di tale atteggiamento, diciamolo chiaramente, deriva da una sostanziale disabitudine alla sussidiarietà. La scuola italiana ha un’impostazione dirigista, in cui se per esempio si rompe la caldaia, il povero e sfortunato preside non può nemmeno alzare il telefono e chiamare l’idraulico più vicino per sistemarla, ma deve rendere conto al provveditorato, alla provincia e all’Asl, e poi, alla fine, se niente si inceppa nel mentre, viene finalmente autorizzato a scegliere un idraulico da contattare (che magari non è nemmeno il più vicino disponibile). Forse sto estremizzando, forse non succede sempre così, ma spesso sì.
Quindi è chiaro che se a un dirigente scolastico si dice: “bene, avete un po’ di soldi e circa un mese di tempo per decidere come spenderli, altrimenti li perdete” è chiaro che un po’ di panico e paura arrivano.
Del resto, com’è in fondo giusto che sia, una scuola non può farsene ciò che vuole, di quel denaro. Almeno il 60% dei fondi deve andare in risorse digitali, massimo 20% in arredo scolastico e 10% in piccoli lavori di ristrutturazione. In pratica, potrebbero verificarsi situazioni in cui ci sono aule pollaio, in cui il tetto perde appena piove un po’ di più, ma ogni ragazzo ha il suo tablet. Surreale, ma bello (o forse no), come diceva Hugh Grant in Notting Hill.
Perché una scuola con i soldi che riceve non può farci quello che vuole? Si dirà – e non nego che sia un ragionamento a prima vista sensato – che lo Stato non può permettersi, soprattutto di questi tempi, di sprecare risorse e, senza vincoli, un istituto potrebbe lasciarsi andare a scialacquare quel denaro in opere del tutto insensate o, peggio, abbandonarsi a consorterie familistiche amorali. Giusto, giustissimo, ma torniamo lì, all’impostazione dirigista, che non è colpa di questo o quel governo, ma avviluppa come una mala pianta il tronco della scuola da decenni. Allora perché non provare a liberarcene?
Una scuola povera di provincia che ha ancora le lavagne di ardesia e i gessetti colorati rispetto a un’opulenta scuola di Milano che già da un decennio ha la Lim e le webcam: è impossibile che abbiano gli stessi bisogni, no?
Liberi di buttarli via, quei soldi, allora? Sarò controcorrente, ma perché no?
Innanzitutto sarà il territorio, io credo, a giudicare se quei soldi sono stati spesi bene o male, privilegiando quella in cui si sono fatti investimenti oculati. Lo Stato, proprio come la scuola appunto, dovrebbe insegnare (quindi dare una visione di dove si vuole andare a lungo termine come sistema, non solo sfornando linee guida estemporanee) e dopo giudicare, premiando gli istituti virtuosi e correggendo quelli meno.
Perché il problema non è solo di avere un computer in ogni classe, un sistema che possa permettere la Ddi (didattica digitale integrata) come si deve, ma un vero cambio di paradigma.
Una scuola in cui ci siano aule dedicate per progettualità specifiche, una scuola in cui gli insegnanti non siano dei pur volenterosi tuttofare che per forza di cose si improvvisano. Perché, se faccio un corso pomeridiano in più rispetto all’orario di lavoro, certo, magari vorrei essere pagato di più, ma non è questo il punto. Preferirei essere pagato la stessa cifra e fare quel corso bene, con una scuola che mi fornisse le risorse – anche umane – per concentrarmi sul progetto e non essere abbarbicato sull’eterna zattera di fortuna di un furioso multitasking.
Secondariamente, nel mio sostanziale pessimismo per la maggior parte delle situazioni, lasciate che almeno su questo sia ottimista. Non ho amato tutti i presidi che ho incontrato nella mia vita, non sono sempre stato d’accordo con presidenze e vicepresidenze, ho litigato con colleghi più di una volta, ma su una cosa sono certo: che tutte le persone con cui ho avuto a che fare nella mia vita in classe e in aula prof, la scuola ce l’hanno a cuore tutti, a modo proprio. Quindi dateci una chance, vedrete che non la sprecheremo spendendo milioni di euro per una collezione esclusiva di nani da giardino in cristallo di Boemia per il prato della scuola, ma per cercare di migliorare davvero il posto in cui lavoriamo.
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