Caro direttore,
il 27 maggio don Lorenzo Milani compie cento anni. Il tema del suo influsso è quanto mai avvincente: con la sua scuola di Barbiana egli è qui, in questi tempi strani, e testimonia come si possa vivere la scuola oggi. A cento anni dalla sua nascita don Lorenzo è quanto mai vivo, ciò che ha testimoniato è ancora in parte da scoprire. Per questo farne memoria dovrebbe muovere a farci riconoscere la sua attualità.
Io ho conosciuto don Milani nel 1968, facevo il liceo a Milano e non so più come mai o grazie a chi ho scoperto il suo libro Lettera a una professoressa. Ero un ragazzo difficile. La scuola di allora, autoritaria e astratta, era per me un peso che non avevo ragioni per portare, tanto che al terzo anno di superiori ero stato bocciato e non avevo fatto nulla per evitarlo. Quando mi arrivò tra le mani il libro di don Milani lo lessi tutto d’un fiato e mi colpì molto, non per la ragione per cui allora andava di moda, quell’ideologia che faceva di don Milani un uomo che lottava per i poveri contro il capitalismo che invece sottraeva loro i più elementari diritti come quello all’istruzione. La sua Lettera mi colpì perché tra le parole di don Milani trovai qualcosa di affascinante, qualcosa per me. Incontravo l’insegnante che desideravo, non quello che avevo e che mi misurava, ma quello che amava i suoi studenti, quello che vedeva in loro una grande positività, quello che si rivolgeva al loro cuore. In Lettera a una professoressa trovavo un uomo che a scuola portava amore e vita, proprio ciò che desideravo io. Grazie a lui venivo a sapere che quel che desideravo era possibile: in quella località così lontana esisteva una scuola dove vi era un insegnante che aveva una tale stima dei suoi allievi che imparava da loro.
“Il maestro” scriveva don Milani “dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va avanti”. Questo era don Milani, un maestro animato dalla certezza che i suoi ragazzi facevano crescere l’amore che lui aveva dato loro. Mi colpì tantissimo trovare un insegnante che imparava dai suoi studenti.
E quando scoprii l’altro suo capolavoro, Esperienze pastorali, fu un grande contraccolpo leggere “Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere”. Per me, che vivevo in una scuola in cui dovevo ripetere quello che dicevano i professori e fare tutto quello che mi comandavano, fu commovente che ci fosse un uomo, invece, che imparasse a vivere dai suoi ragazzi, e fosse tutto teso a scoprire ciò che i suoi ragazzi avessero da insegnarli.
Era la questione della scuola di ieri, è la questione della scuola di oggi. Servono insegnanti che non buttino sulle spalle dei ragazzi il peso del loro sapere, ma che assieme a loro, guidati da loro, cerchino il vero e il bello. Come scriveva ad un amico don Milani nel 1965: “I ragazzi qui studiano e pensano, ma anche io studio e penso con loro. […] normalmente arriviamo alla verità insieme. Quando rimane qualche divergenza, il bene che ci vogliamo ci aiuta a risolverla e a convivere senza tragedie. Perché questo bene è fatto di rispetto reciproco”.
Da dove veniva questo fascino, questa bellezza del vivere la scuola? Lo sappiamo da quanto troviamo nella sua scuola di Barbiana: “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori: ‘me ne importa, mi sta a cuore’. È il contrario esatto del motto fascista Me ne frego”.
Il segreto di don Milani è esattamente questo: la sua scuola non inizia dai programmi o dai progetti, né dal bene che è nella testa degli insegnanti, ma da ciò che interessa ad ogni ragazzo e ad ogni ragazza, e l’insegnante cerca ciò che sta a cuore a chi ha davanti per condividerlo, per costruire con loro un cammino che valorizzi i doni che ognuno di loro porta in sé e che ha bisogno di riconoscere. Questa non è la scuola di don Milani, è “la” scuola. E don Milani non ha fatto altro che portarla alla luce nell’unico modo che si può fare, cioè vivendola.
Così mentre tutti fanno proclami e si ingegnano a immaginare come possa essere la scuola più bella del mondo, don Lorenzo – come del resto ha fatto un altro grande educatore del 900, don Luigi Giussani – si è messo con i ragazzi e ha risvegliato il proprio cuore mentre ascoltava il battito vivo del loro. Una sfida per l’oggi. Non si pensi che per questo occorra eliminare programmi o progetti (anche se in qualche caso sarebbe necessario). Significa viverli come occasione per scoprire se stessi e l’altro. È questo che segna l’entrare in classe, sia che si entri come insegnanti sia che lo si faccia come studenti: in classe si va per imparare. E imparando, solo imparando si insegna.
Questo metodo che don Milani ci ha lasciato e che ci fa tutti attenti ad ascoltare l’altro, certi che da lui ci viene qualcosa di positivo, ci fa capire una delle cose che lui ripeteva, e cioè che il problema della scuola sono i ragazzi che perde.
La scuola oggi ha ancora tanti, troppi abbandoni, soprattutto perché fa perdere spesso l’amore alla vita o non aiuta i ragazzi e le ragazze ad affrontare le domande di senso. E li smarrisce su strade che portano al nulla. Don Milani e don Giussani hanno indicato la strada con la loro vita, dandosi totalmente ai giovani che incontravano. Nulla di più lontano da una buona generosità: testimoniando ai ragazzi e alle ragazze la piena fiducia nel loro cuore, li hanno resi certi di poter trovare in se stessi il bandolo della matassa dell’esistenza. Solo così, a mio avviso, si può arginare la grave emorragia di oggi: aiutando i giovani a riconoscere che la bussola della vita è il loro cuore.
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