Insegnare è un po’ come dipingere una tela, scolpire un legno o un marmo, suonare uno strumento: non è un lavoro, è una grazia. Per quasi quarant’anni – cui si aggiungono quelle di scuola ed università, ma ovviamente dall’altra parte della scrivania – ho ripercorso quasi ogni giorno le parole incantate di Leopardi, Manzoni, Pascoli, Pirandello, sono entrato nelle navate silenziose delle chiese medievali e gotiche, salito sulle barricate roventi del Risorgimento, sceso nelle trincee infangate della Grande Guerra, mi sono trascinato nella steppa ghiacciata della ritirata di Russia. Pagine memorabili di letteratura e di storia rilette cento e cento volte al solo scopo di arricchire me stesso per arricchire loro, i miei giovanissimi studenti di 11, 12, 13 anni nel passaggio più delicato della loro vita. A volte traendone grande soddisfazione personale (gli insegnanti, si sa, vivono spesso momenti di tenerezza verso i loro discepoli che vivono quasi come figli), altre volte senza particolare gratificazione o, addirittura, assaporando l’amarezza della sconfitta. Ma il seme è sempre caduto e il suo germoglio non è dipeso solo da me.
Un anno esatto dopo l’abbandono delle aule, messo alla porta più dalla protervia di una burocrazia divenuta insopportabile che dallo scarto generazionale – che pure iniziava a farsi sentire –, non cado nella trappola di tanti colleghi che rimpiangono il tempo passato (giornalismo e narrativa mi tengono da sempre in forma) eppure mi trovo a fare i conti – ogni giorno, anche in questo momento – con una fila di testi scolastici che mi guardano dallo scaffale e pare mi chiedano perché da tanto tempo non li prenda più in mano. Antologie letterarie, libri di storia e geografia, eserciziari di grammatica su cui ho trascorso gran parte della mia vita e che ora giacciono silenti in un angolo di casa a ricordarmi chi sono stato e perché.
Mi manca la scuola? No, troppo lontana era diventata da ciò che doveva e deve essere, impantanata in un buonismo di Stato che tutto giustifica e logora in nome dell’appiattimento culturale, dell’innovazione didattica ad ogni costo, dell’educazione divenuta araba fenice perché se n’è perduto il senso.
Mi manca, invece, la trasmissione del bello, uno scopo che travalichi la bellezza stessa di una poesia come la si può leggere anche senza essere insegnanti e che si spinga a guardare più in là, tra le file un po’ nomadi dei banchi e negli occhi acuti dei ragazzi cui, una volta sola o cento, sappia toccare l’anima. Ho avuto fra le mani – mani fragili e incomplete – un compito straordinario reso ancora più tale dal prevaricare dentro e fuori la scuola di un modello educativo – direi meglio diseducativo – basato sempre più sul fare prima che sul pensare, sull’informare anziché sul formare, sulla tecnologia come scopo dell’azione didattica invece che come utile strumento per riflettere sulla realtà più grande. La quale va ben oltre i suoi confini materiali, tattili, visivi, pratici, immediati. Grida al cuore, che però necessita di essere educato.
Per questo insegnare poesia – in senso proprio e lato – era diventato per me – ma credo per molti – sempre più difficile: ciò che per secoli, anzi millenni, ha costituito il pilastro su cui si sono erette le culture di ogni terra e di ogni tempo (l’umana civiltà è nata sulla parola scritta, il teatro, l’arte), ora è divenuto la ruota di scorta di cui si può benissimo fare a meno, nell’illusione che il tempio della conoscenza possa stare in piedi anche senza. Non siamo giunti al momento di espellere materialmente dall’orario scolastico della scuola dell’obbligo letteratura e storia dell’arte, geografia umana e storia della musica – per questo occorre una dose di coraggio che il ministero ancora non ha –, ma è soltanto questione di tempo: l’abolizione delle materie di studio sostituite dalle competenze, in atto nel nord Europa, bussa già alle nostre porte.
Sarà la fine di una civiltà di cui fin d’ora si vedono le conseguenze nell’ignoranza in cui nuota buona parte delle nuove generazioni. Ma che importa? Il mercato chiede altro e il mercato vince. Per leggere sul divano di casa Leopardi o Svevo, incontrare Shakespeare o Mozart a teatro rimane sempre – mercato permettendo – il cosiddetto tempo libero, ammesso che lo sia davvero.