A prescindere da quale chimerica e mostruosa forma assumano gli esami di maturità di governo in governo, a un antropologo potrebbero regalare spunti che neanche tre anni presso una tribù aborigena del Borneo sarebbero capaci di offrire.
Il campionario delle dinamiche relazionali presso il misterioso popolo degli insegnanti in quelle torride giornate di fine giugno è, infatti, vasto e complesso. Inimicizie, alleanze segrete, patti di non aggressione, lotte e antipatie che si sviluppano come un fiume carsico, ma che, a volte, sanno esplodere alla luce del giorno con insospettabile forza: basta poco per fare di tutti questi imbrogli e sotterfugi il principale fine della nostra presenza in quella maledetta e caldissima aula.
Dimenticandoci però come lo scopo di tutto ciò fosse originariamente un altro, una valutazione equa – forse – dei nostri studenti. Ed eccolo lì, il punto sorgivo dei nostri diverbi, il voto.
Perché la ovvia, ma inconfessabile verità, è che ognuno dei sette samurai della commissione ha un’idea diversa di cosa vuol dire giudicare e nessuna griglia, nessuna linea guida del Miur ci metterà mai completamente d’accordo.
“Ah, ci vuole severità, per una volta! Da non credere i voti che voi gli avete dato allo scrutinio!”.
“Ma ti sembra il caso di stare basso? Guarda che quelli della F, al contrario di noi della G, hanno scienze motorie in commissione! Poi finisce che loro escono coi votoni e noi come al solito facciamo la figura dei cattivi!”.
Scene di ordinaria follia, neanche troppo romanzate. Un po’ come nel libro Corpi e anime i chirurghi finiscono per giocare ridendo con gli organi dei pazienti, per non impazzire oppressi dal senso di responsabilità, così facciamo noi insegnanti: giochiamo con i numeri, cercando di pensare il meno possibile a quanto questi numeri pesano nella vita e nella mente di chi abbiamo di fronte. Ma come possiamo fuggire da questo avvilente balletto? Qual è la maniera per tornare a casa, dopo una mattinata di fuoco, senza sentirsi arrabbiati, probabilmente più con noi stessi che con i nostri colleghi? Per cercare una risposta, parto da un dialogo avuto nei giorni di fine giugno.
Una mia collega si augurava che in un giorno, fortunatamente non troppo lontano, le prove scritte si sarebbero fatte a computer, in modo da “correggerle senza riconoscere la calligrafia. Potremo stamparle senza il nome ed essere finalmente davvero imparziali!”. Sul momento, ho distrattamente annuito, se non altro perché certe grafie dei nostri adolescenti metterebbero in seria crisi un egittologo. Ma è davvero così auspicabile?
Quando – riflettevo tra me tornando a casa – l’uomo, inguaribile sputasentenze su ogni cosa gli capiti a tiro, solitamente esprime i giudizi migliori, più veri? Semplice. Quando conosce bene ciò di cui sta parlando. Anzi, si dice fin troppo spesso che il problema dei social media è che tutti si sentano autorizzati a esprimere le proprie valutazioni sui più svariati temi pur non sapendone assolutamente nulla, arrogandosi la stessa autorità di chi passa la vita a studiarli.
Faccio un altro passo, sorge un nuovo pensiero. Cosa ci spinge a conoscere, solitamente? Ancora più semplice. Noi approfondiamo ciò che ci interessa. Tanto più ci appassiona qualcosa, tanto più indagheremo. Quale innamorato non ha cercato di sapere tutto sull’amata?
Ormai al cancello della mia abitazione, intuisco finalmente il motivo della nota dissonante che avevo istintivamente percepito nel discorso della collega. Il giorno in cui potremo valutare finalmente dei testi anonimi scritti al pc, non giudicheremo affatto meglio, anzi. Siamo talmente imbevuti del mito di una valutazione oggettiva, “giusta” e assolutamente imparziale che ci dimentichiamo un elemento fondamentale: gli studenti. Loro, fatti di carne e sangue. Loro, fatti di pianti, lamenti e casini. Loro, cresciuti davanti a noi e nel loro rapporto con noi. Loro, che ci interessano. Loro, che sono “per fortuna o purtroppo” il motivo per cui facciamo questo fantastico mestiere.
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