“Difficile non è partire contro il vento, ma casomai senza un saluto. Difficile non è nuotare contro la corrente ma salire nel cielo e non trovarci niente”. Così dice Ivano Fossati in Lindbergh, una delle sue più belle canzoni. L’altro giorno il buon vecchio Giuseppe se ne stava in mezzo ai settanta alunni delle seconde medie della sua scuola e leggeva un passo di Click! un bel romanzo di Luigi Ballerini, in cui il protagonista deve affrontare una prova difficile. E il vecchio prof tira fuori il tablet, cincischia un po’ e fa partire la canzone. Come si fa, chiede agli alunni suoi e a quelli dei colleghi, come si fa ad affrontare un viaggio pericoloso? Come si fa a partire, che cosa ci permette di farlo con dentro magari anche la paura, ma capaci di andare, di sfidare anche le correnti che ci soffiano contro? Ci vuole un saluto, ci vuole. E, alla fine, perché tutto non sia vano, trovarci qualcosa in quel posto dove arrivi.
Giuseppe fa riascoltare tutta la canzone, rilegge il passaggio del libro, viene fuori dalla metafora, spiega. Lo ridice una settimana dopo ai cento ragazzi delle terze, fermandosi su un passaggio della bellissima storia di Bartali raccontata da Antonio Ferrara nel suo splendido romanzo La corsa giusta.
Gino Bartali beve un caffè dopo avere portato in convento i documenti falsi grazie ai quali alcuni ebrei potevano finalmente fuggire dal regime fascista. Ha fatto una fatica boia in bicicletta, aveva una paura matta quella prima volta in cui ha trasportato nel telaio della sua bici i documenti falsi. Era difficile quel viaggio. Ma Bartali dice che dopo quel suo primo viaggio il caffè era buono, anche se non era nemmeno caffè vero. Perché sapeva di gioia e coraggio.
Ma che cosa ci permette di fare un viaggio così? Che cosa aiuta Bartali nella sua corsa, che cosa aiuta noi? chiede ai ragazzi di nuovo. E di che cosa sa, la nostra vita? Fa partire anche qui la canzone. E lascia lì di nuovo la sua domanda ai ragazzi: che scrivano anche loro che cosa è davvero difficile; che dicano anche loro che esperienza fanno, quando sono davvero sconsolati e sconfitti. Nella vita e a scuola. Perché per loro la vita è anche la scuola. E a me che ascolto Giuseppe raccontare la sua impresa viene da pensare a quante cose, a quante parole – a volte inutili, a volte contraddittorie, molto spesso svuotate di quello che conta davvero – in questi giorni girano, anche su queste pagine, intorno alla scuola.
Forse ha ragione Giuseppe, hanno ragione i libri che legge, ha ragione Fossati, per una volta, insomma, ha ragione anche chi non è proprio un poeta, benché qualcuno li chiami così i cantautori italiani. Quello che va bene per gli uomini, quello che va bene per gli alunni di Giuseppe non è forse quello che servirebbe alla scuola italiana? Un saluto ci vuole e qualcosa da trovare nel cielo. Lo so, bisogna venire fuori dalla metafora, mi direbbe anche Giuseppe. Che intanto mi fa vedere quello che ha scritto uno dei ragazzi: “la mia vita non sa di niente. Nessuno con cui parlare. Nessuna sorpresa nei giorni”. Metafore? No, neanche l’ombra. Piuttosto la consapevolezza di avere bisogno di un saluto. Di qualcuno con cui fare le cose. Di qualcuno da lasciare, anche; a un certo punto, da salutare. E che puoi salutare e lasciare proprio perché ti è stato compagno e maestro. E il desiderio di qualcosa che accada, di un senso che spacchi la linea grigia del tempo, un lampo che tagli il cielo in due e ti faccia capire che si può andare perché il cielo non è vuoto. Proprio come succede nei quadri di un grande artista come Pierantonio Verga, che aveva imparato da Lucio Fontana cos’è il mondo e la tela.
Ditelo a quelli dell’Ocse, a quelli che vogliono inseguire i modelli europei e a quelli che vogliono il dialetto sui banchi; a quelli che vogliono le tre buste o a quelli che non le vogliono più; ditelo a quelli che “bisogna essere inclusivi e le difficoltà sono un’opportunità” e a quelli che non ne possono più di Bes, Pdp, Glho o Gli; ditelo a quelli che aspettano da un ministro una parola intelligente e a quelli che non ne vogliono più sapere e farebbero volentieri, come Giuseppe negli anni 70, una bella autogestione da qui al 2040.
Ditelo a tutti che ci vuole un saluto e un senso, qualcuno che ci tiene per mano e che poi si può anche lasciare. E ci vuole che il cielo si riempia di un caffè buono, che sa di gioia e coraggio. Se fosse così, se si capisse che è di questo che ha bisogno la scuola, di queste due semplici cose, allora sono quasi sicuro che verrebbe anche il resto.
Come per la costruzione di una grande cattedrale: bisogna sapere per chi e da che cosa si comincia a costruire. Poi il resto viene. E se qualcuno pensasse che è troppo semplice, che non si può affrontare così l’argomento più complesso e controverso del mondo, glielo dica a quel ragazzo la cui vita non sa di niente che un saluto e un tesoro nel cielo vuoto della vita sono una cosa semplice da trovare, da mettere insieme.
E a Giuseppe che mi chiede di uscire dalla metafora mi viene invece da dirgliene un’altra, perché la poesia ha sempre ragione. Mi viene da dire che forse, ecco, ci vuole un Natale anche per la scuola italiana: un abbraccio e un tesoro. Nel cielo di ogni giorno. E i giorni finalmente sapranno di gioia e coraggio.