Per quanto tempo ancora il sistema scolastico italiano potrà sopravvivere?

La domanda emerge chiara dalle riflessioni sui disastrosi dati sintetizzati qualche giorno fa da Roberto Pasolini.

In realtà tutte le voci più affidabili del mondo educativo pongono implicitamente lo stesso quesito. Si veda per esempio l’ultimo libro di Eraldo Affinati: Via dalla pazza classe: educare per vivere. Oppure la “folle” riforma scolastica proposta in forma di pesce d’aprile da Alessandro D’Avenia sul Corriere della Sera. Particolarmente preoccupante, per gli insegnanti di filosofia e storia, il lungo racconto fatto dal prof. Massimo Mugnai su Il Foglio del 6 aprile scorso: giovani confusi e inconsapevoli (coi loro arroganti genitori) bussano da anni anche alle porte della Scuola Normale Superiore di Pisa.



Come ci ricorda spesso Angelo Panebianco sul Corriere, tutto questo ha poi effetti sulla politica: “Avere scuole di qualità comporta la formazione di una massa critica di ‘pubblico attento’, indisponibile a perdonare ai politici strafalcioni e fesserie” (20 gennaio 2019).

Mi permetto di affiancare al quesito iniziale tre innocenti domande. Perché i mass media (Il Sussidiario escluso) si chiedono tutti i giorni quando cadrà il governo e di rado (solo in occasione di eventi estremi) quando cadrà la scuola? Che cosa hanno da dire i miei colleghi docenti? E i genitori? (Risposta: lasciamo perdere…)



Mi concentro sul secondo punto, che mi riguarda da vicino.

Ormai è un luogo comune, ma è certo che nelle riunioni tra docenti si discute perlopiù di verbali, schede, burocrazia (se sbagli a impostare il problema del Rinascimento, nessuno ti dirà mai niente, ma se sbagli un verbale…).

Negli ultimi anni, si è aggiunta l’Alternanza scuola-lavoro. Un carico di 200 ore per alunno (parlo del triennio dei licei) la cui utilità è tutta da dimostrare e il cui peso burocratico va a finire in larga misura sui docenti (del tutto impreparati) e sulle segreterie. Conosco alunni che da mesi rincorrono il tutor esterno per una firma… e la questione è diventata più rilevante di un’eventuale insufficienza in una verifica.



Il nuovo governo ha deciso di dimezzare le ore di alternanza (anche gli stolti possono fare cose buone). Ma l’effetto riguarda anche gli alunni che hanno cominciato quest’anno il loro percorso triennale. È stata quindi necessaria una frettolosa rimodulazione di quanto stabilito in precedenza…

Il bello viene adesso: durante l’anno scolastico 2018/2019 è stato deciso di modificare l’esame di stato per chi esce dalle nostre scuole superiori al termine dell’anno scolastico 2018/2019.

Sarà un esame migliore? Sarà peggiore? Chissà…

Il punto è: ma la voce dei docenti? Nemmeno questo evento (quantomeno traumatico) sembra averli scossi!

Adesso mi aspetto che agli insegnanti di filosofia e storia venga chiesto di condurre un’ora di educazione fisica in palestra (“Mens sana…”). Indosseranno la tuta, metteranno in bocca il fischietto… e via!

Da che cosa dipende questo silenzio (tranne lodevoli ma isolate eccezioni)?

Molti sono sicuramente frustrati; molti altri sono dediti a quelle che vengono chiamate “buone pratiche” e non hanno tempo da perdere in lamentele. In generale poi, si sa, gli “intellettuali” non brillano per coraggio (con la cultura certamente si mangia, ma soprattutto se lo Stato ti passa un panino). Il fatto che la voce dei docenti si levi forte e chiara (e tutelata dallo scudo dei sindacati) solo quando si parla di contratto, di soldi, di ore di lavoro… finisce per confermare l’impressione.

Aggiungo due elementi che nascono dall’esperienza diretta.

1. L’ideologia statalista è ancora molto diffusa tra chi lavora nel mondo della scuola. Probabilmente davanti alla sua evidente inadeguatezza (vi immaginate? Un’ennesima riforma voluta da Roma!…) ma persistendo il pregiudizio contro una reale autonomia, molti docenti preferiscono tacere.

2. L’abitudine e la capacità di ragionare sono sempre meno diffuse anche tra gli insegnanti. Imperversa il classico dialogo tra persone che non vogliono (o non sanno più) capirsi. Le poche volte che accade di parlare degli alunni, dei libri di testo, delle indicazioni nazionali per le varie discipline, questo fatto è sempre più evidente.

Magari, e così torno alla mia prima domanda, se tutti i giornalisti contribuissero a organizzare discussioni serie, fornendo dati certi e rilevanti e accantonando le argomentazioni più strampalate, oltre a realizzare prodotti di qualità, aiuterebbero in maniera sostanziale la scuola.