È questo il periodo dell’anno spesso dedicato alle gite scolastiche o, più precisamente, ai cosiddetti viaggi di istruzione. Sono rientrato, alcuni giorni prima dell’inizio delle vacanze pasquali, proprio da uno di questi viaggi: ho accompagnato a Berlino i ragazzi dell’ultimo anno del liceo classico in cui insegno. La capitale tedesca è tra le mie mete preferite perché credo che (forse) nessun’altra città al mondo offra una quantità così significativa di elementi per riflettere sulla storia degli ultimi due secoli. Molto spesso perciò “la gita a Berlino” chiude il percorso di storia del triennio liceale. Ma quello che è accaduto quest’anno ha portato con sé “qualcosa di nuovo” che probabilmente non è inutile raccontare. Non si tratta di un cambiamento d’itinerario o dei luoghi che abbiamo visitato e neppure, in buona parte, delle letture che ho assegnato agli studenti per prepararsi a questi giorni.



La novità è stata lasciarsi interrogare in maniera profonda da Berlino, una città inquieta, ferita, che lascia aperta una grande domanda: perché fare memoria? Perché conoscere e mantenere vivo il passato? Perché “coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”: si potrebbe rispondere così, con queste ben note parole di George Santayana.



Non so, però, se questa risposta possa considerarsi sufficiente. Anzi a Berlino è stato evidente il contrario: no, questa risposta non è adeguata. Conoscere quasi tutto sul Secondo Reich non ha impedito che nascesse il Terzo, ripetere “mai più la guerra” davanti ai morti del primo conflitto mondiale non ha evitato che si combattesse il secondo, aver liberato centinaia di migliaia di prigionieri dai campi di concentramento non ha frenato i russi e i tedeschi della DDR dal costruire carceri che, come la prigione della Stasi ad Hohenschönhausen, non sono stati poi così diverse dai lager nazisti. Conoscere il passato non implica necessariamente che esso non possa venire replicato, magari non in forme identiche ma di certo analoghe.



Ritorna, ancora più urgente, la domanda iniziale: perché fare memoria? Una prima, iniziale, risposta prende corpo a partire dalla visita al museo di Otto Weidt, un piccolo imprenditore tedesco che mediante la sua attività di produttore di spazzole riesce a salvare la vita ad alcuni suoi operai ebrei. Qualcuno obietta: sì, certamente un’azione meritoria, ma cosa sono una manciata di persone salvate rispetto a sei milioni di morti? Sembrerebbe una goccia nel mare, invece è già un fatto rivoluzionario. Leggo ai miei studenti alcune righe scritte da Tzvetan Todorov nella quali l’intellettuale franco-bulgaro commenta un passo di Vita e Destino: “Grossman ha capito che bisogna mettere da parte le ‘grandi idee progressiste’ e restare modesti: ‘Cominciamo dall’uomo, siamo attenti nei confronti dell’uomo, quale che sia: vescovo, contadino, industriale milionario, forzato di Sakhalin, cameriere in un ristorante’. Questo richiamo al carattere irriducibile dell’individuo consente di schivare la deviazione dalla benevolenza verso il bene. I giusti non perseguono il bene ma praticano la bontà: aiutano un ferito anche se è un nemico, nascondono gli ebrei perseguitati, trasmettono le lettere dei detenuti”.

Ecco la lezione di “papà Weidt”, come lo chiamavano i suoi operai: non si parte mai da un’astrazione, da una presunta idea di bene, ma sempre dalle persone che si incontrano e dai loro bisogni. La prima responsabilità è impegnarsi con la realtà che si ha davanti agli occhi. “Ma se questo si poteva fare durante la dittatura nazista, a maggior ragione è possibile per noi oggi”, afferma uno dei miei studenti. Nonostante siano ormai le 20 e lo zelante custode del museo si affanni a farci uscire il più rapidamente possibile, nasce un dialogo inteso che coinvolge anche la guida che ci ha introdotto alla figura di Weidt: che cosa abbiamo oggi davanti agli occhi? La sfida dei migranti, gli effetti di una crisi non solo economica da cui si fatica ad uscire, la costruzione di nuovi muri, l’ondata dei populismi e le elezioni europee del prossimo 26 maggio.

Nei giorni restanti vedo crescere in tanti miei studenti il desiderio di capire, di non perdere l’occasione di imparare qualcosa di nuovo: lo si nota dalle domande, dalla partecipazione e dalla disponibilità a seguire il ritmo serrato che le giornate prevedono. Uno dei ragazzi presenta ai suoi compagni alcuni brani de La banalità del male di Hannah Arendt e, a fine giornata, mi racconta che ha iniziato a cogliere con maggior consapevolezza che cosa vuol dire la Arendt quando invita a pensare con la propria testa, a non lasciare che siano gli altri a decidere che cosa è bene e che cosa è male, perché il compito di giudicare è di ciascuno di noi e appaltarlo ad altri apre sempre la strada ad una, più o meno confortevole, dittatura. “Non voglio essere come Eichmann che la Arendt paragona a Ponzio Pilato” – mi dice a voce basso ma con tono fermo -, “voglio imparare a giudicare tutto a partire dalle prossime elezioni europee di cui finora non mi ero mai occupato”.

Così a pranzo, a cena e nei momenti liberi non si parla “del più e del meno” ma di “attualità” e ci si rende conto, insieme, che quello che accade nel mondo chiama la nostra responsabilità e richiede la nostra intelligenza non per uno strano impegno etico – perché bisogna essere informati – ma perché quello che accade (siano esse cose grandi o cose piccole) ci interessa in quanto uomini che, parafrasando Eliot, non vogliono perdere la vita vivendo.

L’esperienza di questi giorni ha chiarito, molto più di mille elucubrazioni, perché abbiamo bisogno di conoscere il passato, perché vogliamo fare memoria. Non soltanto per non commettere più gli errori del passato; la memoria del passato ha valore per il fatto che desta in noi l’interesse per il presente, ha valore solo se fa vibrare il desiderio di giudicare e interrogare il presente, ha valore se ci impedisce di cristallizzarci nei nostri “già so”, se ci distoglie dall’inseguire mirabolanti idee di bene per non farci perdere per strada il bene che ogni uomo già è.

Non di rado leggo che le gite scolastiche si trasformano in viaggi di sballo e svago, più viaggi “distruzione” che viaggi “di istruzione”, a volte, purtroppo, anche con esiti tragici. Eppure, nonostante tutto, se ripenso ai giorni da poco trascorsi cresce in me la certezza che vale la pena rischiare, che la gita scolastica può essere davvero un’opportunità forse irripetibile per una costruzione di se per gli studenti come per i docenti; basta lasciarsi provocare da ciò che si incontra e fargli spazio, lasciare aperta la possibilità che ci sia sempre qualcosa di inaspettato da scoprire.