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Home » Educazione » Didattica » SCUOLA/ Una gita al San Gottardo: l’esperienza vale più di qualsiasi algoritmo

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SCUOLA/ Una gita al San Gottardo: l’esperienza vale più di qualsiasi algoritmo

Roberto Laffranchini
Pubblicato 16 Ottobre 2024
(Ansa)

(Ansa)

Le “competenze” sono spesso il veicolo di una riduzione dell’uomo alla macchina. Soprattutto a scuola. La stessa logica della digitalizzazione

Tra l’essere vivente e le macchine la differenza si sta assottigliando. “Si assiste a una marcata equiparazione tra vivente e artefatto”, osserva il filosofo e psichiatra Miguel Benasayag. Le macchine “intelligenti” non solo ci accompagnano e trovano applicazioni nella comunicazione, nelle esplorazioni, nella raccolta e nelle analisi di dati, nelle previsioni o negli interventi in campo medico, fino all’uso di robot da compagnia. Ma esse diventano vero modello di comportamento umano, fondamentalmente con un obiettivo: non solo migliorare le capacità di agire dell’essere umano, ma superare il limite, qualsiasi limite; acquisire un potere illimitato, eliminando qualsiasi impedimento ed errore. Già Kant, ci ricorda Benasayag, aveva distinto tra “confine”, che rimane aperto a evoluzioni possibili, e “limite” che, potremmo dire, costituisce la condizione della nostra umanità e non può essere cancellato. Ora, è piuttosto evidente che l’uomo nella sua unicità e nella sua variabilità non possa essere ridotto al modello macchina. Rischio che subdolamente si sta correndo nell’educazione delle nuove generazioni anche nella scuola.


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Io ho sempre lavorato nel mondo della scuola e dell’educazione e mi sembra di poter dire che questa visione digitalizzata che permea anche la scuola, non passi anzitutto dall’uso di dispositivi elettronici, o dagli spazi dedicati all’informatica. Entro certi limiti tutto ciò va bene, può servire e inoltre non si può evitare una “ibridazione” tra uomo e macchina, purché rimangano ben distinti.


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Già in un precedente articolo ho osservato che anche le competenze (le skill), così tanto osannate nei contesti formativi, sono impostate secondo la stessa logica funzionalistica che è alla base della digitalizzazione. Una logica basata sulla riuscita che non ammette il limite, come lo intendeva Kant, e che perciò non sa dare senso alle fragilità permanenti e che non riusciamo a eliminare.

Cito una di queste competenze, quella che nel Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese si chiama “Sviluppo personale” (scelgo appositamente una competenza che sembrerebbe lontana dalla preoccupazione della prestazione). Gli obiettivi sono la conoscenza e la fiducia in sé, la responsabilità e la progettualità. Ed ecco la procedura per attuarla: – identificazione delle condizioni di partenza; – formulazione dei processi e delle azioni per raggiungerli; – valutazione dei risultati.


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Credo che chiunque si troverebbe in difficoltà ad applicare questo schema di fronte a domande che sempre più spesso gli allievi pongono come, per esempio, “che cosa ci sto a fare qui?”, o espressioni, talvolta di vera disperazione, come “non ce la farò mai!”. Sempre più si applicano modelli che ritagliano il reale secondo una visione parziale e avulsa dal contesto anche nell’insegnamento. Se pensiamo ad allievi con disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), ci illudiamo di risolvere il loro problema cercando di far entrare la loro conoscenza scolastica in modelli standard. Quando usiamo “mappe concettuali” per trasmettere una cultura e rafforzare una memoria, non trasmettiamo cultura, ma informazioni, lontane dall’esperienza, senza storia, senza vere narrazioni. In queste rappresentazioni dei concetti, potremmo dire facendo nostre le parole del filosofo Byung-chul Han, “viene a mancare un ancoraggio narrativo”. “Il contesto di connessioni che istituisce il senso delle cose cede il passo a un essere-uno-accanto-all’altro o a un essere-uno-dopo-l’altro di eventi svuotati di senso” (La crisi della narrazione, 2024). Per riempire i vuoti (qualsiasi carenza o mancanza: fisica, mentale, esistenziale) si ricorre all’informazione; alle informazioni, ai dati, alle procedure che non sanno spiegare il nesso fra le cose e delle cose con sé stessi.

“Se la vita non è più un che di narrabile”, scrive ancora Han, “anche la saggezza deperisce e il suo posto viene preso dalla tecnica del problem solving”. Di questo intento di colonizzazione informatica è un esempio il progetto chiamato in italiano Il castoro informatico, che promuove un concorso internazionale di informatica per allievi dagli 8 ai 20 anni. Si tiene ogni anno da diverso tempo e ha fra gli scopi dichiarati quello di trasmettere il fascino dell’informatica, rafforzare la fiducia in sé stessi, supportare gli insegnanti nell’insegnamento dell’informatica, ecc.

Ogni anno vengono raccolti materiali didattici con decine di esercizi e concorsi di prova. Una manna per quegli insegnanti (per fortuna, pochi) che vogliono risultare brillanti in classe con poca fatica. Trascrivo il testo di due esercizi che semplifico per brevità. Il primo. Florian vende mazzi di fiori. Florian ha a disposizione due secchi, uno con un numero definito di fiori di due tipi diversi e uno con dei rametti di verde ornamentale. Lega ogni bouquet secondo queste istruzioni: 1. Prendere un primo fiore dal secchio. Se il primo fiore è una margherita, prendere un’altra margherita. 3. Poi prende un rametto dall’altro secchio fino a formare un bouquet di 4 parti. Viene poi data la soluzione con questa osservazione: “Le istruzioni per legare il bouquet sono chiare e potrebbero essere eseguite da una macchina. In informatica si parla di algoritmo”. Il secondo. Lisa crea un orto. Vuole piantare cinque ortaggi diversi. Alcuni ortaggi vanno d’accordo tra loro, altri no. Divide l’orto in aree esagonali e vuole piantare un ortaggio in ogni area rispettando le regole di vicinanza e lontananza degli ortaggi.

Gli esempi riportati sono centinaia, sono ben presentati e indubbiamente allenano un certo pensiero computazionale (il pensiero che ambisce a una visione modellizzata del reale in unità di informazioni calcolabili). Mi sembra, tuttavia, che ci si stia allontanando dallo scopo educativo della scuola, mi riferisco soprattutto a quella dell’obbligo. L’accumularsi di messaggi sotto forma di problemi da risolvere, di lacune da colmare, di skill da attivare, di autonomia da conquistare, di prestazioni da raggiungere, ecc. ecc. cancella quella soggettività umana che è provocata dalla realtà di cui fin dal grembo materno il bambino fa esperienza. Lisa deve creare un orto, che forse non ha nemmeno mai visto. È vero che non si può fare esperienza di tutto, ma si può fare esperienza e conoscere attraverso testimoni diretti e indiretti, che la scuola ha il compito di offrire: insegnanti che facciano esperienza del mondo di cui parlano e interagiscano con il “mondo” degli allievi.

Per esperienza sappiamo che impegno, ambizioni, obiettivi, procedure, metodologie si sviluppano anzitutto guardando la realtà con occhi umani dentro una comunità scolastica in cui al centro ci sia la propria umanità e la relazione con l’altro, che costituisce ognuno di noi nel nostro essere nel mondo.

Un esempio: una classe di 5a elementare si reca in gita sul Passo del San Gottardo con la sua maestra. Insieme preparano l’uscita cercando il luogo sulla cartina e immaginano come poteva essere il posto partendo dall’osservazione delle curve di livello. Sul posto la classe percorre le gole che hanno reso così difficile per secoli l’attraversamento di queste montagne fino alle sfide attuali. Incontrano una guida competente e appassionata del museo del San Gottardo che ascoltano attentamente e a cui pongono domande. Leggono l’immancabile leggenda del Ponte del diavolo e ascoltano un brano della Notte sul Monte Calvo di Musorgskij. Passano poi davanti al monumento di Suvorov, il generale russo a capo delle truppe che avevano combattuto contro Napoleone e ritornavano, attraverso il Passo del San Gottardo, in Germania: una pagina di storia da scoprire. La realtà rivela tutta la sua ricchezza. Qualche giorno dopo, in classe, la maestra porta un modellino di un rilievo stampato in 3D, in cui si notato montagne e valli; non dà nessuna spiegazione. Subito scatta la loro curiosità per sapere quale luogo riproduce. Nasce un dibattito fra di loro. Le prime ipotesi riguardano le gole del San Gottardo, ma poi qualcuno comincia a notare particolari che non corrispondono a quella realtà, come per esempio l’altitudine delle montagne. Le ipotesi prendono forma e gli allievi si rendono conto che quel modellino corrisponde a un altro luogo da cui erano passati nella loro gita. L’esperienza li ha resi attenti. Che differenza di metodo rispetto all’impostazione funzionalistica e alla didattica ridotta al problem solving!

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