Sono di certo i miei studenti preferiti! E si capisce il motivo. Quando mi vedono apparire sulla soglia della classe mi accolgono con un applauso e persino con qualche grido di giubilo, manco fossi una star. La cosa in effetti è davvero sorprendente, perché io so per certo che il mio contributo all’incremento delle loro competenze e abilità è minimo, anzi, a essere precisi, di poco superiore allo zero. Nessuna modestia. Realismo totale. Da sette anni svolgo la medesima programmazione.



L’inizio, certo, era stato promettente: “What’s your name? Your surname? Address? Phone number?” e giù, a fioccare, le relative risposte. Poi i numeri e colori, qualche domanda con “Have you got?”, i verbi più comuni e i nomi di oggetti di uso quotidiano. Canzoni, poche. Il gioco preferito è quello con le flash cards (di solito immagini di animali) appese con le mollette a un filo di lana su cui precipitarsi per sfilarle alla squadra avversaria, a mo’ di bandierina. Poi… poco altro.



Ogni anno si riparte da capo con pochissime aggiunte o variazioni. Una constatazione deludente per un prof abituato alle performances dei ragazzi del liceo classico in cui insegno solitamente. A essere sinceri, nel tempo, mi sono accorto che l’entusiasmo dell’accoglienza, in particolare in Marco e Peppe (nomi inventati) derivava in parte dal loro cromosoma in più e, per la parte restante, dal gradimento suscitato dalla presenza delle alunne del mio liceo che nel corso degli anni hanno aderito alla proposta di aiutarmi, una volta alla settimana, nelle lezioni di inglese che svolgo da “volontario” presso il Centro che raccoglie ragazzi e giovani adulti con ritardi medio-gravi di varia natura della nostra città.



La forma di autismo da cui è affetta Marta, invece, le permette di ricordare tutti i nomi delle persone incontrate, insieme alla data del compleanno e a qualsiasi particolare della loro vita di cui sia venuta a conoscenza. “Ma Flavio ci pensa?” chiede all’inizio della lezione mentre muove ritmicamente le mani prima di tranquillizzarsi e prendere posto, “e Larisa? Ci pensa a noi?”.

Se i migliori, in inglese, sono ragazzi con la sindrome di Down, devo confessare però che le mie “favourite students” sono Noemi e Flo. La prima fa tutto con delicatezza infinita pronunciando le parole con un filo di voce; la seconda, il cui disagio non si è riuscito ancora a definire con esattezza, memorizza pochissimo ma è molto intonata e, diversamente dai compagni, adora la musica.

Quest’anno, a un certo punto, ho messo in discussione l’utilità della mia lezione. Serve davvero? – mi sono chiesto –. Potrebbero fare più utilmente dell’altro? Per fortuna mi sono ricordato delle parole di Emilio, lo psicologo che per diverso tempo ha curato l’aspetto educativo del Centro. “Guarda che se con i tuoi alunni la motivazione è data dalla novità – mi ha detto col tono della certezza – con questi ragazzi invece serve ripetere le stesse cose”. Così sono ripartito. Si perché, chi lo ha stabilito che il nostro valore stia nella capacità di prestazione? Non nella loro, certo, ma neppure in quella mia. Chi l’ha detto, inoltre, che a imparare debbano essere sempre gli studenti e a insegnare solo i professori?

E io cosa imparo? Innanzitutto che c’è sempre una strada che porta all’altro: al punto segreto di intersezione tra il cuore e la mente, dove si impara più di quello che si capisce o si crede di poter misurare. Vale come sguardo da avere sui miei studenti, disconnessi dal reale nel loop infinito degli scroll sullo smartphone nascosto dalla pila dei libri, magari intenti a perseguire col minimo sforzo un dieci in pagella; e vale per i ragazzi del Centro bloccati nei loro ritardi. Una strada per raggiungerli c’è sempre, è vero, ma non sempre io la so trovare. Anche questo aspetto di impotenza non è inutile. Credo educhi all’umiltà. L’applauso all’inizio (sic!) di ogni lezione mi ricorda che il mio valore, e il loro, sta innanzitutto nel fatto che ci siamo l’uno per gli altri. Così come siamo.

A impedire il sentimentalismo (sempre in agguato), che vorrebbe abrogare il limite e la sofferenza senza dovere imparare nulla da essa, è l’imbattersi nei genitori. Li scorgo per un attimo all’ingresso mentre affidano i loro figli o li vengono a riprendere. Nei loro occhi tutto il mistero di una storia che hanno accettato di seguire oltre il limite della loro capacità di comprensione e forse di resistenza. Gente abituata a non misurare in base alle prestazioni. Gente da cui desidero imparare a volere bene ai miei figli con la stessa gratuità totale con cui li vedo amare i loro.

Ha ragione Marta, l’unica cosa che conta davvero è che ci siamo e che siamo pensati, ben al di là le nostre capacità precarie e contingenti. Perché dal punto di vista dell’Infinito la distanza tra poco più di zero e dieci è identica. Quella che separa il nulla dall’essere, invece, è un valore infinito.

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