Riceviamo, da parte di Valerio Capasa, la lettera che una collega gli ha spedito dopo la pubblicazione del suo ultimo articolo.
Caro professore,
anche se la mia risposta arriva un po’ tardi – e mi scuso per questo –, il suo articolo l’ho letto subito appena ricevuto e ho lasciato che mi facesse compagnia in questi giorni, che entrasse in classe con me. È stato una boccata d’umanità, che mi ha aiutato, direbbe Calvino, a riconoscere e dare spazio a “chi e che cosa, in mezzo all’inferno [delle incombenze di fine trimestre], inferno non è”.
Come non ripensare, leggendolo, alla mia prima esperienza di insegnamento! C’era tanto di umano – e non infernale – negli occhi lucidi con cui mi apprestavo a entrare in classe per la prima volta nel ruolo di docente e nella frequenza accelerata dei miei battiti cardiaci mentre salivo su per le scale, “sì che ’l piè fermo sempre era ‘l più basso” – mi suggerisce l’amico Dante.
Mio malgrado, ci pensò qualcuno più navigato di me a ricordami che ora io ero la professoressa – creatura mitologica dotata di tre teste, una per interrogare, una per spiegare e una per mettere voti, e nemmeno un cuore – e che avrei dovuto farmi rispettare: “Questi so’ di quinto, non farti mettere i piedi in testa”.
Entrai in classe decisa a interpretare il ruolo della docente fredda, che conosce a memoria tutto lo scibile sulle proprie discipline e sa stabilire la giusta distanza tra sé e i suoi alunni. Mi riuscì abbastanza bene: fui in grado di spegnere – alla faccia di accendere una sensibilità – gli entusiasmi di un paio di alunni che, incuriositi dalla nuova presenza, avevano avuto il coraggio di farmi delle domande: non delle domande qualsiasi, ma delle domande di quelle che a una professoressa non si fanno, di quelle che violano la privacy e accorciano pericolosamente le distanze. Un’alunna bassina e peperina in prima fila mi aveva chiesto quanti anni avessi e come facessi a insegnare già alla mia età; un ragazzone di ultima fila invece voleva sapere se fossi la stessa che aveva visto giocare a pallavolo contro sua sorella. Stranamente lui non mi chiese come facessi a insegnare dato che ero già una pallavolista, ma credo che lo abbia pensato: la creatura mitologica di cui sopra di solito non fa sport, non ha hobby, non ha una vita bella e piena. Ed è in genere una persona triste, che trae soddisfazione solo da qualche brutto voto e qualche nota disciplinare messi agli alunni peggiori, che possibilmente odia.
“Non mi fate domande di carattere personale, per favore”: questa la mia risposta per entrambi. Secca, lapidaria, da persona triste. Quanto me ne vergogno ancora!
Mi concedetti un appello veloce e distratto, negando a me stessa anche la possibilità di associare un volto alla lista di nomi che pronunciavo meccanicamente, perché ad attendermi c’era la domanda di rito: “A che punto siete con il programma?”.
Il programma: il primo – e forse anche l’ultimo – interesse delle docenti brave, quelle che si fanno rispettare: stavo andando bene! “Abbiamo fatto la vita di Pascoli, prof!”. Eccola! La vita dell’autore! Ricapitolando: la distanza, il programma, la vita dell’autore… non mancava davvero nulla!
Chiesi in prestito un libro alla ragazzina peperina di prima fila – che culo, il Baldi, lo stesso che usavo al liceo da studentessa – e chiesi alle mie giovani vittime, rigorosamente senza guardarle negli occhi, di aprire alla pagina in cui c’era un brano da Il fanciullino. Ricordavo ancora le parole della mia professoressa del liceo mentre ce lo spiegava. Credo di averle riutilizzate: se avevano funzionato con me, avrebbero funzionato anche con loro! Spiegai ininterrottamente per tutta l’ora, con la salivazione azzerata e lo sguardo basso sul libro. Mi convinsi, alla fine, di non essere stata niente male: Pascoli era salvo. I miei alunni addormentati sul banco un po’ meno.
Tornata a casa pensai che in realtà neanche Pascoli fosse poi così salvo. Come avevo fatto a parlare del fanciullino che “vede tutto con maraviglia” senza meravigliarmi della bellezza che avevo al mio cospetto? Come avevo fatto a dire che il fanciullino è “veramente in tutti” se di quello dentro di me non si era vista nemmeno l’ombra? Chi mi aveva dato il diritto di parlare di colui che “fa umano l’amore” senza donare un briciolo della mia umanità?
Oggi sono una docente diversa, per fortuna direi. Sono una docente che entra in classe non per spiegare o interrogare, ma per vivere. E che ogni mattina non vede l’ora di incontrare Alice, Flavia, Alberto, Luca, Manuel, Mara, Mattia, Gaia… Perché so che Alice deve mostrarmi il suo ultimo disegno, Luca ha da raccontarmi i suoi successi da cestista, Manuel invece vuole confessarmi di aver guardato ancora una volta la partita della sua squadra dalla panchina, Mara deve confidarmi in lacrime che nessuno la capisce, Mattia non vede l’ora di dirmi che ha letto le favole di Marcovaldo al suo fratellino di sette anni. Ognuno a proprio modo mi consente generosamente di insinuarmi nella sua vita: perché mai io dovrei essere così avara da negargli di entrare un po’ nella mia?
Credo che, paradossalmente, la didattica a distanza ci abbia consentito di aprirci un po’ alle (il)legittime intrusioni, alle violazioni della privacy, alle entrate a gamba tesa: “Prof., ma quei libri dietro di lei li ha letti tutti?”; “Prof., ma quello nella foto dietro di lei è suo padre? Le somiglia un sacco!”; “Prof, ma lei nel pomeriggio come fa a non annoiarsi a casa?”; “Prof, qual era il suo ruolo a pallavolo?”. Abbiamo conosciuto qualche animale domestico, la voce di alcune nonne, i poster attaccati ai muri delle camerette. Siamo entrati nella loro vita.
Una volta una mia alunna mi ha detto che io ero “diversa” perché avevo fatto “una cosa unica”, che mai nessun docente aveva fatto prima per lei: mi ero accovacciata vicino al suo banco e l’avevo aiutata. Ebbene, questo è tutto quello che voglio e mi sforzo di essere: una docente accovacciata tra i banchi.
Ho ricominciato da zero? No, credo di aver ricominciato da tre, perché in fondo tre cose buone qualche anno fa le avevo fatte: mi ero avvicinata all’aula con gli occhi lucidi; avevo parlato di Pascoli leggendo Pascoli e non qualcosa su Pascoli; ero tornata a casa e mi ero messa in discussione.
Un caro saluto,
Francesca Diviggiano
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