La valutazione è “un processo sistematico di raccolta ed interpretazione di dati che portano, come parte del processo stesso, ad un giudizio di valore, in vista di un’azione”. È questa una delle più famose definizioni di valutazione, espressa nel 1977 da Clarence Edward Beeby, pedagogista neozelandese.

Processo, cioè una successione di atti aventi tra loro un nesso in rapporto ad un fine in un contesto educativo come la scuola. Sistematico, cioè avente la caratteristica di procedere nelle azioni con regolarità, con continuità, secondo criteri determinati.



La valutazione non può essere ridotta ad attività episodiche occasionali, come per esempio, i compiti in classe, le interrogazioni a sorpresa, le verifiche più o meno programmate e preparate. Si manifesta come un percorso di conoscenza che cresce e si dilata indagando il valore di un determinato oggetto da apprendere. Si tratta di una processualità che comprende quattro fasi: la pianificazione, la raccolta e l’interpretazione dei dati, la formulazione e la comunicazione di un giudizio, in vista di un’azione, deciso correntemente ai fini della valutazione stessa.



Negli articoli precedenti abbiamo lavorato sulle prime tre fasi. In questo ultima proviamo a riflettere sul giudizio espresso per un fine e sugli obiettivi di questo giudizio, sul suo utilizzo, sulla sua utilità. Non un giudizio arbitrario, quindi, “nasometrico”, come si dice, ma un gesto pertinente, motivato, adeguato al contesto e agli attori, valido, attendibile, efficace, condiviso, in funzione dello scopo finale: la promozione umana, culturale, civile dei nostri giovani; promozione nel senso che ci suggerisce l’etimologia della parola (“procedere in avanti”, “seguire la stella”).



In questo orizzonte la valutazione, documento e veicolo del giudizio, implica un lavoro collegiale basato sul fatto che valutare è giudicare e giudicare è paragonare usando la ragione, vivendo l’affezione, la libertà. In questa direzione, oltre a gestire il rischio degli errori tipici della valutazione, occorre curare la raccolta e la qualità delle informazioni, la loro interpretazione, la comparazione tra dati di fatto con dati di progetto: il référé (oggetto reale) con il référent (oggetto ideale), secondo lo studioso francese Charles Hadji (La valutazione delle azioni educative, La Scuola, 2017). Tutto ciò richiede tempo ed energia, perché il giudizio possa essere il frutto del rapporto, del dialogo, delle attività, delle scelte e delle decisioni, da parte del docente, dell’alunno e della famiglia, degli stakeholders (portatori di interesse). Si tratta di un’operazione complessa, delicata, necessaria e utile perché esplicitamente e/o implicitamente il giudizio influisce sulla lezione, sul metodo dello studente, sugli atteggiamenti, sui comportamenti dei protagonisti della scuola.

Finalità e modelli

Tra le finalità e gli obiettivi che il giudizio valutativo scolastico comporta, non possiamo dimenticare: a) la cura della correzione dei testi e delle attività, b) la pratica dell’autovalutazione, c) la comunicazione sistematica e cooperativa dei docenti, dei genitori, degli allievi, d) i punti di forza di ogni alunno e di debolezza mediante attività mirate.

Se queste ed altre azioni vengono effettuate nei termini detti sopra è più probabile favorire il paragone tra la situazione osservata, analizzata, interpretata con quella desiderata, attesa, per la quale ci siamo mossi. Tre sono le forme di questa messa a confronto.

La prima forma paragona la prestazione dell’allievo con gli obiettivi della formazione ed esprime la distanza tra risultati ottenuti e traguardi attesi. La seconda mette a confronto la prestazione dell’allievo con quella dei compagni ed esprime le differenze individuali. La terza pone un paragone tra la prestazione attuale dell’allievo e il progresso rispetto alle sue precedenti performance.

Tenendo presente queste finalità, nella prospettiva della scuola inclusiva la combinazione più efficace dei tre modelli è quella tra il primo e il terzo nella misura in cui non vengano censurati i punti di partenza, l’itinerario personale e gli obbiettivi da raggiungere.

Giudice o testimone?

Il giudizio è l’atto straordinario con cui l’essere umano prende posizione di fronte alla realtà, e si impegna di fronte ad essa ad attestare questa sua posizione.

In questa accezione il giudizio valutativo, che tradizionalmente è previsto nella fase terminale della valutazione e spesso rappresenta anche il momento della comunicazione all’esterno dell’istituzione scolastica (famiglia, altre scuole), è l’essenza dello stile argomentativo e pertanto non si dovrebbe collocare alla fine. È espressione del docente (magisteriale) che testimonia cosa, come, quanto è accaduto in funzione di una meta precisa e condivisa. Il docente non è il burocrate imparziale che pretende di applicare delle procedure, ma un com-partecipe dell’avventura dell’insegnamento/ apprendimento impegnato a elaborare e formulare giudizi veri, positivi e costruttivi.

Giudizi “argomentati”

Il giudizio vero, positivo e costruttivo comunicato ha come genesi condivisa e come formulazione trasparente i tre fattori dell’argomentazione: l’ethos (autorevolezza), il logos (ragionevolezza), il pathos (sentimento della questione in gioco).

Come genesi condivisa perché all’alunno vengono esplicitati i sistemi di giudizio. Come formulazione trasparente perché il giudizio gli viene espresso in modo costruttivo, incoraggiante in un rapporto pedagogico significativo.

Il termine ethos corrisponde al latino auctoritas, cioè autorevolezza: qualità di uno a cui riconosco che mi può far crescere. “Il logos è lo strumento con cui comunico, il discorso argomentativo in sé. Logos deve certamente avere una componente di razionalità – perché un discorso contraddittorio non persuade – ma deve anche essere ragionevole, deve cioè tenere conto della totalità dei fattori in gioco. Il pathos è l’effetto dell’argomentazione sul cuore del destinatario: è come il decisore sente, percepisce la questione; è la percezione complessiva della realtà da parte della persona, è come la persona dimora nella situazione” (E. Rigotti, R. Mazzeo, Conoscenza e significato, Mondadori, 2009).

Chi valuta non dovrebbe escludere niente. Dovrebbe sempre cercare quei procedimenti che sono adeguati alla situazione.

La ragione non usa solo il metodo della dimostrazione razionale, o della sperimentazione scientifica, o della consequenzialità logica.

Quando deve valutare un comportamento umano usa il metodo della certezza morale: un percorso a volte anche molto semplice e veloce, che partendo da una serie di segni, arriva ad un giudizio che ragionevolmente è il più adeguato in quel momento.

Esplicitare i parametri del giudizio non significa patteggiare, ma comunicare (offrire come dono e compito) le ragioni dei criteri, gli oggetti da valutare in modo da orientare il lavoro dello studente.

Parliamo di comunicazione e presentazione “argomentata”, non semplicemente enunciata, come si addice allo stile argomentativo dell’insegnamento, che “comporta un io e un tu, anche un noi”, uno scambio comunicativo “in cui un soggetto sollecita l’altro soggetto, chiede l’adesione a una tesi, il sì a una proposta, in cambio di appropriate ragioni” (Rigotti 2009, p. 135).

La forma di quest’interazione comunicativa è il dia-logo tra docente, alunni e classe, che a volte assume i connotati della discussione critica, incentrata sul concetto di persuasione di adesione ragionevole, nella consapevolezza che la criticità è capacità di lasciarsi convincere dalle ragioni. In questo contesto ogni gesto didattico (l’ora di lezione, la correzione dei compiti, le verifiche) documenta la natura dialogica dell’argomentazione, favorisce il rispetto dell’altro come persona, non censura la drammaticità del rischio presente in ogni giudizio.

Giudizi veri, costruttivi

Un giudizio è vero se ciò che afferma o nega corrisponde allo stato reale delle cose di cui trattiamo. Se scrivo sulla verifica “ Obiettivi non raggiunti, lacune molto gravi. Quattro” sto affermando il vero se quello che dico è congruo con un qualcosa di reale. Qualcuno direbbe di “oggettivo”, finendo in quel vizio positivistico e in quell’arroganza che abbiamo già denunciato. Non esiste oggettività nella valutazione se non come condivisione dei significati e dell’impegno rispetto ad essi. L’oggettività nel giudizio valutativo è un mix di scelta dei parametri, di trasparenza della loro applicazione, di cervello e cuore nell’argomentazione. Se dunque attesto “Obiettivi non raggiunti, lacune molto gravi. Quattro” devo condividere con l’alunno “malcapitato” una risposta alle seguenti domane: “Quali obiettivi? Da quali indizi si capisce che gli obiettivi non sono raggiunti? Quali sono le lacune? Perché?” eccetera.

Rispondere a queste domande vuol dire formulare dei giudizi e giustificarne le ragioni con argomenti adeguati e efficaci. L’esito potrebbe essere determinante per educare la ragione, incrementare l’esperienza, guardare e guardarsi sulla strada della libertà, del governo di sé stessi.

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