A circa un anno dall’insediamento al piano nobile del palazzo di viale Trastevere, è tempo per un primo bilancio delle iniziative fin qui intraprese dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara. A giudizio di numerosi osservatori il bilancio si può ritenere sostanzialmente positivo. Siamo – senza paragoni – ben al di sopra della modestia dei suoi predecessori, che certamente non passeranno alla storia della scuola italiana. In sintesi si può dire che Valditara ha prudentemente lasciato, per ora, da parte il miraggio delle grandi e impegnative dichiarazioni di principio e ha privilegiato pragmaticamente il ruolo del manutentore della complessa macchina dell’istruzione, con interventi circoscritti e distribuiti su specifiche questioni (talora di rilievo non secondario) su cui questo giornale si è già in più circostanze soffermato.



Dovendo mettere le mani sull’esistente e volendo dare prima di tutto efficacia a una struttura tradizionalmente statica, reagendo a una sedimentazione di prassi e abitudini restie all’innovazione e sbloccare problemi da tempo sul tappeto (uno tra i tanti, forse il più spinoso: la dispersione scolastica), è stato giocoforza che il ministro abbia dato l’impressione di operare più secondo una linea di continuità con la politica scolastica dei governi precedenti che rettificarla e riorientarla secondo un piano di azione discontinua che pone al centro la persona. Vedremo nei prossimi mesi se il senso pratico che finora ha guidato il ministro si accompagnerà a scelte marcate da una più incisiva intenzione riformatrice. Qualche indicazione più dettagliata consentirebbe di capire qual è l’idea di scuola che ne sostiene l’iniziativa in rapporto alla sua funzione sociale e culturale nella vita del Paese.



In questo caso le scelte di Valditara dovranno misurarsi con due snodi strategici, uno di impianto strutturale, l’altro di natura più culturale e formativo-pedagogica.

Per quanto riguarda il primo punto, esso può essere riassunto con un interrogativo così concepito: la scuola è prima di tutto dello Stato, e la sua gestione non può che essere conseguentemente ministeriale con il suo corredo, a cascata, di circolari, regole d’ingaggio del personale, indicazioni dettagliate fin nei particolari didattici? Oppure la scuola – indipendentemente dal suo status statale o paritaria da considerare secondo una logica integrativa e non alternativa – è al servizio delle persone raccolte nelle comunità locali, ne interpreta i bisogni libera da lacci e lacciuoli dettati dall’alto, organizzata e gestita con modalità orizzontali? Lo schema non cambierebbe se si optasse per la regionalizzazione del sistema d’istruzione: al centralismo ministeriale si sostituirebbe quello regionale.



L’ampliamento dell’autonomia – anche sul piano finanziario – delle scuole andrebbe comunque orientata, secondo quanto previsto dalla Costituzione, dalle “norme generali” di cui all’art. 33, e monitorata ad un duplice livello, per evitare che essa si sviluppi con modalità incontrollate e che la scuola affidata alla cura locale possa tradursi in forme di diseguaglianza e di in-equità specialmente in quelle aree del Paese ove il sistema è già oggi più debole. È del tutto evidente che nel caso il ministro si orientasse verso questa scelta non potrebbe darle gambe in breve tempo. Si tratterebbe infatti di riorientare il paradigma dell’istruzione italiana quale si è andato consolidando lungo una storia pluricentenaria. Operazione che richiede tempo, idee chiare, continuità di governo.

Sul breve periodo basterebbero tuttavia alcune scelte in controtendenza con il passato (come, per esempio la riforma del governo scolastico locale ordinata su reti di scuole, concorsi decentrati territorialmente, l’assunzione diretta del personale, la premialità per i docenti migliori decisa localmente su base reputazionale, un vasto sostegno alle scuole più deboli) per dare un segnale di discontinuità rispetto al centralismo statalista coltivato da tutti i governi prima e dopo la scuola repubblicana, compresi quelli democristiani. Mettendo Sturzo in soffitta, questi ultimi nel secondo dopoguerra – sia detto incidentalmente – altro non fecero, con motivazioni e argomenti diversi, che dare continuità allo statalismo ereditato dalla politica scolastica dei governi liberali e consolidato dal fascismo scolastico.

Un secondo passaggio fondamentale riguarda un altro interrogativo: a cosa serve la scuola? La risposta non è più unanime come accadeva fino a qualche decennio fa. Parte del mondo politico e dell’opinione pubblica non fa mistero sull’urgenza che la scuola, in nome del principio inclusivo, assuma una forte caratterizzazione socio-protettiva per trattenere nelle aule quanto più a lungo possibile quella quota di studenti a rischio di abbandono precoce, anche a costo di ridurre al minimo la funzione culturale della scuola. Tesi che si accompagna alla spinta sindacale perché la scuola rappresenti un’occasione di assorbimento della disoccupazione intellettuale senza andare troppo per il sottile, osserviamo noi, sulla preparazione dei docenti più giovani (ma intanto si fa già sentire per alcune classi di concorso la carenza di candidati).

Queste due opzioni – che sono andate crescendo negli ultimi decenni – hanno finito per ombreggiare quella che tradizionalmente è stata la ragion d’essere della scuola e cioè una comunità intellettuale impegnata contro l’ignoranza, nella trasmissione del patrimonio culturale, espressione di una tradizione che si tramanda e nel tramandarsi si rinnova. Incalzato e messo in difficoltà dalle opportunità offerte dal libero mercato della rete, sarebbe riduttivo liquidare questo modello riducendolo alla semplice nostalgia di una “scuola neogentiliana”, perché è davanti a tutti l’inquietante fenomeno dell’indebolimento nelle generazioni più giovani delle più elementari cognizioni necessarie per essere cittadini consapevoli. Qualche approfondita riflessione sulla consistenza culturale dell’offerta scolastica non sarebbe perciò inutile.

Questa visione della scuola si è nel frattempo arricchita della necessità di fornire agli allievi – attraverso una più incisiva attenzione alla maturazione della persona – quella strumentazione intellettuale e quella capacità critica necessarie per vivere in una realtà in trasformazione permanente, far fronte ai problemi della vita, saper assumere le proprie responsabilità, contemplare la bellezza, coltivare il senso del mistero che circonda l’esistenza umana.

A tal proposito alcuni studiosi ritengono sia giunto il momento di superare la standardizzazione dei programmi di origine ottocentesca e sia invece urgente dotare i giovani di un survival kit (un paniere di conoscenze indispensabili alla vita) per fronteggiare le incognite del futuro. Altri preferiscono ricorrere alla nozione di character, nel senso della formazione della personalità all’intersezione tra sapere e saper essere, padronanza dei saperi essenziali e coltivazione di quelle doti racchiuse nell’espressione soft skills o non cognitive skills legate alla capacità di relazione con le persone, di compiere scelte lungimiranti, coerenti e con senso critico, di gestire in modo appropriato il proprio tempo e saper decidere dopo aver valutato tutte le variabili a disposizione.

Non resta che attendere le prossime iniziative del ministro per capire in quale direzione si svolgerà il seguito del suo mandato.

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