Lo stop al reddito di cittadinanza annunciato dal ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, per quei giovani che abbiano interrotto gli studi senza adempiere l’obbligo scolastico serve a poco nella lotta alla triste piaga della dispersione. Soprattutto se il sistema scolastico, nella sua normalità, continua a non prendersi cura degli studenti, in primis quelli più fragili, ma tende piuttosto a respingerli.
Certo, c’è bisogno finalmente di trovare ipotesi di soluzione a un problema, la povertà educativa, finora gravemente ignorato. I numeri resi noti dal ministro (140mila giovani fra 18 e 29 anni che in Italia risultano percettori del Rdc e che possiedono al massimo un titolo di terza media) possono scandalizzare alcuni, ma non certo chi vive al Sud, dove la dispersione scolastica è, purtroppo, una malattia di grandi dimensioni che cammina di pari passo con la povertà economica. Quando, come accade in tante periferie del Sud, una famiglia vive in un tugurio, senza i requisiti minimi di una degna esistenza, è difficile per un ragazzo frequentare la scuola, svolgere i compiti, rispondere bene alle interrogazioni o resistere alla tentazione di dire di sì al facile guadagno, proposto da loschi mercanti di droga o di lavoro nero.
Un caso a sé è Catania, la capitale italiana della dispersione scolastica (25,2%) ma anche la città dove si stanno cominciando finalmente a sperimentare forme di lotta concrete. Ciò che il ministro annuncia di voler fare, a Catania – pur in altre modalità – si sta già sperimentando da qualche tempo grazie all’opera di un volontariato attivo nei quartieri, all’impegno del presidente del Tribunale per i minorenni e dell’osservatorio creato dalla Prefettura. Sono già 200, per esempio, i casi di famiglie che si sono viste sospendere il reddito di cittadinanza perché non mandavano i figli minori a scuola. E questo fatto, certamente, ha riportato finalmente il problema al centro del dibattito, facendo emergere però tutte le carenze dell’ente pubblico: le famiglie disagiate cominciano a mandare i figli a scuola, ma mancano i docenti di sostegno e c’è carenza di assistenti sociali. Così gli studenti in difficoltà sono normalmente lasciati a loro stessi.
Si può costringere o invogliare, certamente, una famiglia a favorire la frequenza scolastica dei figli minori, o convincere i giovani a completare gli studi, ma se la scuola non è capace di accogliere tutti o i corsi di formazione professionali gestiti dalla Regione non cominciano a tempo debito, come la mettiamo?
Un esempio. Ha commosso molti in Italia la lettera al quotidiano La Sicilia del ragazzo catanese che, conseguita la licenza media, confessava che i genitori lo volevano mandare a lavorare, mentre lui avrebbe desiderato continuare a studiare. Lo studente scriveva: “Voglio studiare perché non voglio essere un animale, perché un animale non sa niente e agisce senza pensare, mentre io voglio essere libero”. I ragazzi hanno questo grande desiderio di libertà, che andrebbe coltivato e assecondato. Ci siamo mobilitati, allora, perché lo studente potesse proseguire gli studi e così il giovane si è potuto iscrivere in un istituto tecnico. Ma qual è stata la risposta della scuola e dei prof? Hanno misurato quel ragazzo di un quartiere popolare, proveniente da una famiglia senza mezzi, con i criteri “oggettivi” dei voti: 3 nel compito di matematica; 4 in quello di italiano. Dunque: “non sei fatto per studiare”. Una scuola incapace di prendersi cura dei suoi studenti li fa scappare. E così è capitato al ragazzo autore della lettera. Ma questo può capitare, come ci ha ricordato nei giorni scorsi Alessandro D’Avenia sul Corriere, anche a chi è portato per gli studi ma non accetta la scuola-catena di montaggio.
Il ministro, dunque, si faccia mostrare i dati della dispersione scolastica complessiva (esplicita e implicita) al Sud (39% in Calabria, 35,9% in Sicilia) e vedrà che il problema è molto più allarmante di quanto si potrebbe pensare. E, soprattutto, non si illuda che un’emergenza di queste dimensioni si possa risolvere con semplici misure restrittive.
Bisogna piuttosto potenziare i servizi educativi, i sostegni alle famiglie in difficoltà e tutte quelle buone pratiche che nella scuola e fuori dalla scuola (pensiamo per esempio a forme di volontariato come Portofranco) possano far crescere una pratica della cura degli studenti e rendere gli istituti scolastici un luogo accogliente per tutti.
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