Ci risiamo: l’educazione è ormai roba di un altro mondo. Alle dichiarazione in Rai del neoministro all’Istruzione Giuseppe Valditara (“via i cellulari in classe durante le lezioni”) ha subito fatto seguito all’Agenzia Dire quella della Rete studenti medi (“dichiarazione senza senso”) a sottolineare come, ormai, qualsiasi parola dica il governo su qualsivoglia materia non può essere bollata da chi sta dall’altra parte della barricata politica che come negativa, senza confutarla nel merito.
Gli esempi, in questo mese di lavoro del nuovo esecutivo, si sprecano. Anzi, rimanendo in tema, la Rete (non si sa bene in rappresentanza di quanti studenti, mentre è palese il suo orientamento politico) attacca frontalmente (e in maniera maleducata: vedi inizio pezzo) il ministro con queste parole: “Invitiamo Valditara a cominciare a lavorare invece che rendere la scuola terreno di propaganda”. Non si ha notizia di una replica da parte dell’interessato, che avrebbe potuto controbattere facilmente con un “invito la Rete a studiare invece che occuparsi di politica”.
Ma lasciamo perdere le polemiche, per altro futili. Il nocciolo della questione (cellulari sì, cellulari no in aula) può essere riassunto in questo modo: il telefonino può essere un valido strumento per svolgere la didattica in classe (oltre che fuori)?
Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale presidi, interviene infatti nella diatriba in due fasi: dapprima stigmatizzando “l’utilizzo improprio dei cellulari a scuola” in quanto “qualunque tipo di device deve poter essere utilizzato con l’unico scopo di rendere l’insegnamento maggiormente attrattivo ed efficace” in considerazione del fatto che “la lezione frontale tradizionale è ormai superata e che la tecnologia può aiutarci a superarla”.
Ora, l’importante è attenerci anzitutto al significato delle parole: quello di improprio, efficace, può aiutarci. Se si parla – da tempo e nelle sedi più diverse – di uso “improprio” del cellulare significa che non uno, non due, ma migliaia di studenti (certo non la maggioranza, ma tanti) ne fanno un utilizzo sbagliato, che nulla c’entra con la lezione in corso. Così, se un tempo la distrazione partiva da un giornalino letto sotto banco o dai bigliettini scambiati da un banco all’altro, adesso va da sé che il telefonino ne ha preso in maniera molto più pesante il posto. Così non fosse, né il ministro né i dirigenti scolastici avrebbero preso posizione negli ultimi mesi in favore almeno di una limitazione del loro uso. Quindi il problema esiste e non si risolvere mandando più o meno a quel paese chi afferma il contrario.
“Efficace”: può esserlo questo strumento come anche il pc o il tablet? Risposta: a seconda di come lo si usa, naturalmente. Se per approfondire la lezione o per fare altro. “Può aiutarci”: qui sottolineiamo il verbo servile “può”, che indica senza dubbio la possibilità di fare qualcosa, non la sua certezza e men che meno l’obbligo.
In sintesi: è tutta questione di maturità, cioè di educazione. Quella cui facevamo riferimento in principio e che, cronaca alla mano della quale si occupa spesso Il Sussidiario, vedi ad esempio il recente caso di Torre del Greco – anche nella scuola (specchio aderente della società) rischia di diventa come l’Araba Fenice. Anche, aggiungiamo, se ad usare fuori luogo il cellulare è il docente, ma qui allora bisognerebbe insegnarne l’uso corretto a docenti e discenti cominciando già dalla scuola primaria.
Quindi il cellulare può, in determinate circostanze, essere d’aiuto, supportare, completare un percorso didattico. “Può” non significa “deve”. Del resto, Valditara ha solo specificato il suo proposito dicendo che andrebbe nella direzione di “garantire a studenti e docenti un tempo di studio in classe senza distrazioni”: alla luce di quanto abbiamo appena scritto, come si può – appunto – essere pregiudizialmente contrari?
Purtroppo, su questo punto la famosa Rete glissa brillantemente e, anzi, incalza su temi triti e ritriti (e poco attinenti alla didattica vera e propria) quali il “disagio psicologico, le valutazioni, l’educazione civica, l’ambiente” e anche “la sessuo-affettività”. Non una cenno su italiano, letteratura, matematica, scienze, arte e tutto il resto. Peccato, perché la Rete avrebbe invece avuto gioco facile nell’attaccare il ministro sulla sua sortita circa il “bene” che farebbe allo studente “l’umiliazione come fattore di crescita”. Forse intendeva dire altro, forse è stato travisato, forse ha semplicemente sbagliato e sarebbe opportuno, allora, precisare. Chissà, comunque ha tutta l’apparenza di un bello scivolone che del resto fa il paio con la dichiarazione – fatta col coltello fra i denti – della Rete: “Ci aspettiamo che il ministro ci convochi”. Ohibò: in base a quale principio di rappresentatività?
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