Houston, we have a problem: studenti e insegnanti non hanno voglia di ricominciare.
Ma come? Le scuole superiori non hanno riaperto l’1 febbraio?
Non esattamente, perché dal profondo Sud arriva un dato che dovrebbe far tremare l’Italia intera. Il governatore pugliese Emiliano ha esteso alle superiori il modello normativo che da tre mesi sancisce la fine della scuola come diritto/dovere e l’inizio della scuola “a sentimento”: chi se la sente va, chi non se la sente non va. A ogni ordinanza regionale le famiglie scelgono se mandare i propri figli in presenza oppure se tenerli a casa a seguire a distanza.
Ora che anche gli studenti delle superiori si sono pronunciati, si è fatto largo l’ospite inquietante: circa l’80% ha deciso di non tornare.
Non girava voce che la scuola avesse voglia di ripartire? O perlomeno: la didattica a distanza non aveva stancato un po’ tutti?
Non c’è dubbio, e gennaio è stato forse il punto più basso della curva psicologica. Sarà stata la delusione di un 2021 che mica poteva davvero cancellare magicamente il 2020 o di qualche sparuto fiorellino dove si immaginava un prato di primule vaccinali; sarà che, quando il primo quadrimestre è agli sgoccioli, a nessuno importa altro che non siano voti e media aritmetica. Occhi sfiniti, nessuna voglia di alzarsi dal letto, assenze prolungate, isolamenti, esaurimenti, psicologi, neurologi… Niente, gli arrapati dell’interrogazione non hanno tempo per ascoltare, per corteggiare o per fare passeggiate, figuriamoci se s’innamorano! Vanno subito al sodo: “non si picca se sia ricca, se sia brutta se sia bella, purché porti la pagella voi sapete quel che fa”.
Intanto tutti si lamentano: “non ce la facciamo più a stare murati dietro questi maledetti schermi”. Benissimo, come mai allora 4 su 5 non vogliono tornare?
Emiliano gongola: a suo avviso le famiglie gli danno ragione. Eppure sotto il trionfo si cela la tragedia: cosa porta una famiglia a preferire comunque la Dad?
Innanzitutto i trasporti: qui nessuno ha visto un pullman o un treno in più rispetto a un anno fa, e per un pendolare acquistare un biglietto oggi equivale a prenotare un tampone domani.
Seconda ragione: tutti hanno paura di ammalarsi, ma anche – soprattutto – sono ammalati di paura. Non è solo la paura di un contagio, più al fondo è la paura come sentimento della vita.
Terza ragione: la logica del branco. Se in una classe vogliono tornare solo in 5, è normale che gli altri 20 tentino di persuaderli a un ripensamento, perché qui nessuno ha visto neppure un’aula in più rispetto a un anno fa, e la didattica mista fa schifo, ma di cosa sia una classe smembrata i politici e i chiacchieroni del circuito mediatico non ne sanno niente.
Quarta ragione: il comodo. È vero che la Dad ci esaurisce, ma la presenza è peggio. Almeno a casa abbiamo un quarto d’ora di pausa, una serie di escamotage per le interrogazioni, la scusa della connessione che non va, biscotti e PlayStation a portata di mano; la Dad associa, alla comodità della casa, la comodità di lamentarsi della scomodità. Per di più, ritrovandoci nel mare aperto dell’aula, non resisterebbero a spiegare a tutto spiano e a caricarci di compiti con la scusa che la Dad ci ha rallentati. E allora sapete cosa c’è? A scuola non mi vedrete fin quando non manderete i carabinieri a prelevarmi da casa. Piuttosto faccio l’abbonamento dallo psicologo, ma con voi meglio mantenere le distanze.
Il nodo indicibile si chiama libertà. Finché la scuola apre o chiude a suon di decreti, dritti o storti si obbedisce; ma ora che la domanda a bruciapelo è stata posta, sotto le ceneri di un anno bruciato è venuto fuori un fondo di malavoglia. Ad andare in fumo è stata la voglia di ricominciare, decantata dalla retorica della scuola in presenza e trascurata dall’ideologia speculare della Dad come risorsa: due astrazioni che perdono di vista lo studente concreto, a cui andrebbe invece mostrato quotidianamente quale senso nascondano gli argomenti che si studiano, quanto ci interessi la loro umanità e se il nostro fuoco interiore è ancora acceso. Ci è mai passato per la testa, per esempio, che una mattina libera potevamo prendere la bicicletta e andare sotto casa di un nostro alunno semplicemente per salutarlo?
Altro che diffuso desiderio di tornare alla normalità! Ora è certificato: la normalità era deprimente. La sola idea di ritrovarsi sullo stesso pullman, nella stessa aula, con la stessa didattica, sarebbe un pessimo déjà vu. Ormai ci si è adattati a un nuovo habitat, sfibrante ma al tempo stesso confortevole, come quando davanti alla tv le chiappe sul divano zittiscono gli sbadigli e l’occhio calante.
Quel che è raro è trovare traccia della fame di ricominciare dei negozianti, dei baristi, degli imprenditori, che con le mani in mano non riescono a stare o che credono in quel che stanno costruendo o che semplicemente devono portare il pane a casa; la fame dei genitori che per un regalo di Natale si infilano nella confusione dei centri commerciali; la fame di chi per un pranzo con i nonni è finito in quarantena. Ebbene sì, non solo per i politici ma anche per i suoi protagonisti la scuola vale meno di un cappuccino, di un paio di scarpe e di un panettone: per quattro chiacchiere da ficcare in testa non vale la pena rischiare. La scuola – purtroppo, sotto certi aspetti – non è un’azienda, lo stipendio è garantito e la promozione quasi, i contenuti un’eterna ovvietà, rivedersi ancora stamattina non è fonte di sorpresa, e se non ci sei basta inserire l’assenza sul registro elettronico, cos’altro dovrei fare? sospettare che tu stia male e non te ne importi più niente di niente?
Non è affatto vero che “quando c’è la salute c’è tutto”; oltre a non morire, c’è bisogno di vivere, e il passaggio dalla noia al desiderio è tutt’altro che automatico. A forza di andar dietro a spiegazioni, verifiche, regole, protezioni e piattaforme, ma anche a rivendicazioni sindacali, a beghe secondarie (presenza o distanza? Profondità, signori! Reale o virtuale? Spirituale, per favore!), a inconsistenti segnali di ripresa (che zoomando su un minuscolo fiorellino non inquadrano mai il letame che sta per sommergerlo), abbiamo perso troppi nostri alunni, e se li rivedremo prima della vecchiaia sarà solo perché un giorno o l’altro qualche decreto li obbligherà.
Invertendo una frase di Pavese, l’unica amarezza al mondo è non cominciare. È brutto vivere, quando vivere è non cominciare, mai, in nessun istante. Se gennaio ci ha mostrato il buio pesto della depressione, febbraio certifica che non basta aver toccato il fondo per voler risalire. Per contrastare la rotta degli eventi c’è bisogno di qualche sguardo acceso che contagi una miriade di occhi spenti. Chi intercetterà, domani mattina, questa incrostazione paralizzante? chi saprà parlarci? chi la vorrà stanare?
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